Il Medio Evo è il periodo compreso tra
l'antichità classica e l'età moderna. Il primo ad usare
l'espressione «Medio Evo» nel suo preciso significato di partizione
cronologica della storia fu Christoph Keller nella sua Historia Medii «vi
del 1688, che era un vero e proprio testo di storia medievale. È tuttavia
tra il Quattro e il Cinquecento che cominciò a farsi strada, con la
comparsa di termini quali media aetas, media tèmpestas, l'idea che tra la
fine dell'età classica (emblematicamente rappresentata dalla caduta
dell'Impero Romano) e il recente rifiorire degli studi umanistici e classici si
fosse frapposto un lungo intervallo di ignoranza e di barbarie. Lo stesso
giudizio sottintende il termine «Rinascimento», evidentemente
correlato a «Medio Evo» e usato a indicare, con connotazioni
fortemente positive, la splendida civiltà europea del XV e del XVI secolo
(e particolarmente le sue espressioni artistiche e letterarie).
Gli
umanisti, ossia gli studiosi che stavano lavorando al recupero della cultura
classica, si sentivano per molti aspetti più vicini alla civiltà
antica che non al mondo che li aveva immediatamente preceduti (e di cui, in
realtà, gli piacesse o meno, erano figli). La stessa cosa accadde nel
Cinquecento ai seguaci di Lutero e degli altri riformatori religiosi: la loro
rottura con la Chiesa di Roma era giustificata anche con il desiderio di
riallacciarsi all'esperienza della Chiesa primitiva rinnegando i secoli della
corruzione e della decadenza, che erano, appunto, i secoli del Medio Evo.
All'origine dell'espressione «Medio Evo» c'è dunque un
atteggiamento di condanna che dagli umanisti e dai riformatori religiosi del
Cinquecento è passato agli storici dei secoli successivi, fino al
Romanticismo, che ha segnato una sorta di entusiastica riscoperta della
civiltà medievale.
Oggi il termine «Medio Evo» è
semplicemente un'etichetta utile a indicare, senza entusiasmi e senza condanne,
un lungo periodo della storia europea che appare contrassegnato sul terreno
morale e culturale dal predominio dei valori cristiani e su quello politico dal
prevalere di un ideale di organizzazione statale di tipo universalistico di cui
l'antico Impero Romano forniva il modello. Ma un'età così lunga
(circa un millennio) non si può pensare come un tutto unico, sempre
uguale a se stessa o anche soltanto abbastanza simile a se in tutto il suo
corso: in verità un fiorentino dell'età comunale (tanto per fare
un esempio) aveva ben poco in comune con un suo conterraneo dell'età
carolingia e non si sarebbe trovato affatto a suo agio dovendo scambiare quattro
chiacchiere con lui. Così, per cogliere più concretamente, sul
piano della periodizzazione, questo o quel processo storico, si è
suddivisa in varie maniere la lunga età medievale: l'«età
comunale» e l'«età carolingia», di cui abbiamo appena
parlato, sono appunto due di queste possibili suddivisioni. Da ricordare
è la distinzione tra «Alto» e «Basso» Medio Evo, per
la quale si assume di solito come frontiera cronologica l'anno Mille, oppure
l'intero secolo XI. «Alto» nel senso di più remoto, che viene
prima (da cui «Basso» nel senso di tardo, che viene dopo: per esempio
Basso Impero o Tardo Impero per indicare gli ultimi secoli dell'Impero Romano) e
legato al tedesco alt, che vuol dire «vecchio».
«antico».
IL REGNO DEI FRANCHI E IL DOMINIO DI SAN PIETRO
Una delle ragioni del successo dei Franchi
rispetto agli altri popoli germanici è che essi sono entrati a far parte
della Cristianità occidentale passando, per così dire, dalla porta
principale. Adottando fin dall'inizio la confessione di fede romana, i Franchi
hanno «saltato» quell'iniziale adesione all'Arianesimo che per altri
popoli germanici ha significato un lungo periodo di tensioni e incomprensioni
con la Chiesa di Roma e con le vecchie classi dirigenti romane. I Franchi,
insomma, hanno potuto godere fin dall'inizio dell'appoggio del Papato, che sul
piano culturale, morale ed economico era sicuramente il più autorevole
centro di potere dell'Occidente.
Come altri regni romano-barbarici, anche
lo Stato franco era una costruzione relativamente fragile. Il potere monarchico,
ad esempio, era considerato patrimonio della famiglia regnante, il che
significava (tra le altre cose) che alla morte di ogni sovrano il regno veniva
diviso tra gli eredi, causa di ricorrente instabilità politica. La
debolezza della prima dinastia franca, quella dei Merovingi, permise alla lunga
l'ascesa di una grande famiglia aristocratica, quella dei Carolingi (detta
così dal suo più noto esponente, Carlo Magno), che a poco a poco
accentrò nelle proprie mani il governo effettivo del Paese, lasciando ai
re solo l'ombra del potere.
Il primo grande rappresentante della dinastia
carolingia, fu Carlo Martello, che aveva la carica di maestro di Palazzo dei
sovrani merovingi. Diventò famoso per aver sconfitto, nel 732, gli Arabi
nella battaglia di Poitiers, arrestando definitivamente l'avanzata dell'Islam in
Europa. Proprio la difesa della Cristianità occidentale contro la
persistente minaccia dei musulmani attestati nella penisola iberica
costituì il punto di forza della politica e della propaganda carolingia
e, quando venne il momento di mettere definitivamente da parte i sovrani
merovingi, questa benemerenza religiosa servì egregiamente a coprire e a
giustificare l'usurpazione del trono. Fu infatti grazie all'appoggio del papa
che il figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve (714-768), poté deporre
nel 751 il re legittimo facendosi incoronare in suo luogo. Nel 754 lo stesso
pontefice, Stefano II, venne in Francia per benedire il fatto compiuto e
consacrare re l'usurpatore.
L'antica alleanza tra il Papato e il regno
franco veniva così rinnovata, con grande e reciproco vantaggio. La nuova
dinastia carolingia ne ricavava la legittimazione del proprio potere e la
solidarietà della Chiesa. Questa solidarietà voleva dire tra
l'altro che il personale ecclesiastico, che era il solo fornito di una certa
istruzione e in grado di svolgere con qualche competenza incarichi
amministrativi, poteva essere utilizzato nella gestione dello Stato: da allora,
in effetti, la maggior parte dei prelati, vescovi e abati, cumulò
funzioni religiose e civili.
Il Papato, dal canto suo, otteneva l'appoggio
militare dei Franchi contro i Longobardi, da tempo convertiti alla religione
romana, ma troppo potenti e troppo vicini per poter essere davvero considerati
amici dai vescovi di Roma. La liquidazione della potenza longobarda in Italia
per mezzo delle armi franche era la condizione indispensabile per la definitiva
trasformazione in un vero e proprio Stato pontificio di quel «Dominio di
San Pietro» che nel corso dei secoli i papi avevano messo insieme
nell'Italia centrale mediante donazioni, acquisti e usurpazioni. Inoltre (e
forse era la cosa più importante) il Papato otteneva la collaborazione
della dinastia carolingia nell'opera di cristianizzazione forzata dell'Europa:
le vittorie degli eserciti franchi avrebbero d'ora in poi assicurato
l'allargamento costante della sfera d'influenza della Chiesa di Roma.
Nel
768, alla morte di Pipino, Carlo, primogenito di Pipino, dovette dividere col
fratello Carlomanno le responsabilità del regno. Fra i due fratelli,
però, i rapporti non erano affatto buoni. Il maggiore storico del tempo,
Eginardo (770 ca. - 840), nella sua Vita di Carlo, ne addossa la colpa al
carattere poco conciliante e invidioso di Carlomanno. Ma la testimonianza di
Eginardo, che era stato educato alla corte di Carlo e ne era diventato uno dei
più intimi collaboratori, è certamente parziale. La verità
è che neppure Carlo era immune da gelosie ed anzi assai presto
l'ambizione si rivelò in lui più forte della lealtà dovuta
al fratello e collega di governo. Alla fine del 771 Carlomanno morì
all'improvviso e Carlo ne approfittò per impadronirsi di tutto il potere,
escludendone la moglie e i figli di Carlomanno, che fuggirono in Italia,
trovando ospitalità alla corte longobarda.
I Longobardi erano
ufficialmente alleati dei Franchi, ma avevano delle ottime ragioni per diffidare
di Carlo. Nel 770 Carlo, aveva ripudiato la sua prima moglie, la franca
Imiltrude, per sposare Desiderata (che tutti i nostri studenti conoscono come
l'Ermengarda dell'Adelchi, la nota tragedia del Manzoni), figlia del re
longobardo Desiderio. Desiderio, fidando nell'alleanza franca, agli inizi del
771 si era spinto fino a Roma ed era riuscito a trattare da una posizione di
forza col papa. Matrimonio e alleanza avevano avuto però brevissima
durata: nello stesso 771 Desiderata fu ripudiata da Carlo e rimandata in Italia.
Nel 772, poi, l'elezione del nuovo papa, Adriano I, ancor più ostile ai
Longobardi dei suoi predecessori, fu l'annuncio dell'imminente intervento
franco.
Carlo valicò le Alpi nel 773, sconfisse ripetutamente le
forze di Desiderio e, vinte le ultime resistenze, assunse il titolo di rex
Francorum et Longobardorum, ossia re dei Franchi e dei Longobardi. In esecuzione
dei trattati di alleanza che Adriano I si era affrettato a rinnovare, Carlo
donò al pontefice (anche se è difficile dire in che cosa
esattamente consistesse tale donazione) vastissimi territori: vi erano compresi,
tra l'altro, la Corsica, le Venezie, l'Istria, i ducati longobardi di Spoleto e
Benevento e le terre che in passato dipendevano dall'esarca (dal greco
èxarchos = «comandante») bizantino di
Ravenna.
L'assestamento del nuovo potere franco-pontificio in Italia non fu
facile. In diverse regioni della penisola emergevano dissensi e resistenze, che
costrinsero Carlo a ripetuti interventi. In poco più di dieci anni, tra
il 776 e il 787, dovette scendere in Italia tre volte per sedare ribellioni, per
scoraggiare i tentativi di restaurazione longobarda e specialmente per vincere
la renitenza dei principi longobardi di Benevento, che non erano mai stati
sottomessi davvero, a riconoscere formalmente e definitivamente la
sovranità franca. Anche se frequentemente impegnato in Italia Carlo non
trascurò gli altri fronti, la Spagna musulmana e la Germania
pagana.
In Spagna è difficile dire se l'obiettivo di Carlo fosse fin
dall'inizio di creare semplicemente un argine fra il regno franco e i domini
musulmani oppure se aspirasse a conquistarla per intero. Fatto sta che almeno
sulle prime le cose non gli andarono affatto bene. Nel corso della famosa
campagna del 778, decantata come impresa di tutta la Cristianità contro
l'Islam e rievocata per secoli in innumerevoli opere letterarie, i Franchi
furono costretti alla ritirata e al passo di Roncisvalle la loro retroguardia fu
assalita e fatta a pezzi. Nell'episodio trovò la morte anche il marchese
bretone Orlando, il famoso paladino cantato nella Chanson de Roland. La rotta di
Roncisvalle non fu però opera dei Mori, come vuole la tradizione
epico-cavalleresca, bensì di un corpo di cristiani baschi (il che la dice
lunga sul carattere religioso di queste imprese). Il risultato finale di un
trentennio di lotte fu in ogni caso la costituzione e il consolidamento di una
Marca di Spagna (con capitale Barcellona), che si estendeva dai Pirenei
all'Ebro.
Altrettanto lunghe e sanguinose furono le guerre contro i
Sassoni. Esse hanno una speciale importanza nella storia dell'Occidente
perché hanno segnato l'integrazione nella civiltà cristiana ed
europea delle vaste regioni comprese fra il Mare del Nord, l'Assia, l'Ems e
l'Elba, rimaste fino a quel momento tenacemente pagane. Quanto ai Bavari, pare
che il loro capo, che era genero del re longobardo Desiderio, tramasse qualcosa
contro Carlo d'intesa col principe di Benevento e con gli Avari, temibilissimi
scorridori di origine mongola (a loro viene attribuita l'introduzione in Europa
della staffa e della scimitarra) che erano stanziati nei territori dell'attuale
Ungheria. Nel 787 Carlo lo costrinse ad abdicare e si impadronì del suo
dominio. Venuto così a trovarsi a diretto contatto con gli Avari, Carlo
non tardò ad organizzare anche contro di loro una guerra di sterminio.
Una prima spedizione, nel 791, costrinse gli Avari a ripiegare oltre la Raab,
una seconda, fra il 795 e il 796, distrusse gli ultimi loro accampamenti. Ai
superstiti venne imposto il battesimo e i renitenti vennero passati per le armi,
secondo lo stile già collaudato. Anche per questo genere di benemerenze
la Chiesa di Roma ha accolto Carlo Magno tra i suoi santi.
LA CAMPAGNA D'ITALIA CONTRO I LONGOBARDI
Ad affrontare la campagna d'Italia contro i
Longobardi Carlo era stato indotto dagli inviti che gli venivano dal papa e
dalla necessità di eliminare la minaccia rappresentata dai figli del
defunto Carlomanno, che avevano trovato rifugio presso il re longobardo
Desiderio. Nel 773 l'esercito di Carlo si mosse da Ginevra diviso in due
tronconi, l'uno diretto al passo del Moncenisio, l'altro al Gran San Bernardo.
Il primo scontro avvenne presso le chiuse della Val Susa, nelle vicinanze di
Avigliana: aggirate le postazioni nemiche, Carlo si vide spianata la strada
verso la pianura padana. Le forze longobarde si concentrarono allora in Pavia e
in Verona, al comando rispettivamente del re Desiderio e di Adelchi, figlio ed
erede del re. Delle due roccaforti longobarde, la seconda fu presto sopraffatta:
Adelchi riuscì a stento a fuggire e a riparare a Costantinopoli, mentre i
familiari di Carlomanno, che si trovavano con lui furono catturati. Pavia oppose
invece una lunga resistenza e si arrese soltanto nel giugno del 774. Fatto
prigioniero, Desiderio fu rinchiuso in un monastero francese. Da quel momento il
Regno longobardo cessò di esistere come Stato indipendente e venne
incorporato nell'Impero Franco, conservando però le sue leggi e le sue
strutture amministrative.
EVANGELIZZATI COL TERRORE
Il Vangelo è stato spesso predicato, in
Europa e fuori d'Europa, con il più sbrigativo dei sistemi: la forza. La
conversione delle popolazioni sassoni e la loro integrazione nel sistema
politico di Carlo al termine di un trentennio di indescrivibili atrocità,
costituiscono un eccellente esempio di evangelizzazione mediante il terrore. A
farsene un'idea basta qualche disposizione del capitolare che Carlo Magno impose
ai Sassoni per vincerne l'insofferenza verso la religione cristiana (si
chiamavano «capitolari», ossia «raccolte di capitoli», le
disposizioni legislative dei sovrani franchi):
«Se qualcuno
sarà entrato con la forza in una chiesa e vi avrà perpetrato furti
o rapine o avrà bruciato la chiesa stessa, sia condannato a
morte.»
«Se qualcuno, per disprezzo della religione
cristiana, avrà trascurato il digiuno quaresimale e avrà mangiato
carne, sia condannato a morte. Consideri però il sacerdote se il fatto di
mangiar carne non sia dovuto a necessità.»
«Se
qualcuno tra i Sassoni avrà voluto sottrarsi al battesimo rimanendo
nascostamente pagano sia condannato a morte.»
«Se qualcuno
avrà tramato contro i cristiani con i pagani o avrà voluto in
qualunque modo mantenersi ostile ai cristiani, sia condannato a morte. E
chiunque avrà appoggiato con l'inganno tali crimini contro il re e il
popolo cristiano, sia condannato a morte.»
E il lugubre
ritornello «sia condannato a morte» si ripeteva di capitolo in
capitolo, qualunque fosse l'infrazione prevista.
IL SACRO ROMANO IMPERO
A seguito delle conquiste militari, il regno
franco aveva ampliato notevolmente i suoi territori, che alla fine dell'VIII
secolo si estendevano dal Mare del Nord al Mediterraneo e dall'Eloa all'Ebro.
Gran parte dell'Europa era nelle mani di Carlo, ricondotta a un'unità
che, come si è detto, rinverdiva il ricordo dell'unità romana. In
effetti l'idea di restaurare l'antico Impero Romano esercitava una grandissima
attrazione su Carlo e sulla sua corte. I tempi si presentavano singolarmente
propizi: le due maggiori potenze del tempo, i Bizantini e gli Arabi, erano, per
diverse ragioni, nell'impossibilità di opporsi efficacemente all'ascesa
della monarchia carolingia; quanto ai rapporti tra il regno franco e la Chiesa
di Roma erano diventati, se possibile, ancora più stretti che nel
passato.
Morto Adriano I nel 795, era stato eletto papa Leone III, un
personaggio contestato dalla sua stessa corte, che, fuggito da Roma, si era
rifugiato presso Carlo. Carlo riportò il papa a Roma fornendogli
un'adeguata scorta armata, ma si riservò di valutare le accuse che erano
state formulate contro di lui e di risolvere personalmente la controversia
presiedendo un apposito tribunale. Alla fine Carlo decise di assolvere Leone e
di condannare i suoi avversari. Nella vicenda Carlo aveva avuto modo di
esprimere molto chiaramente come intendeva esplicare il suo ruolo di
«difensore» della Chiesa: si considerava protettore ma, al tempo
stesso, giudice del vescovo di Roma.
Il giorno di Natale, e cioè
subito dopo la conclusione del processo, Carlo era presente alla celebrazione
della messa in San Pietro. Al termine della funzione, Leone III si volse verso
di lui e, mentre i fedeli lo acclamavano imperatore, gli pose sul capo la corona
imperiale. Secondo quanto afferma Eginardo, il biografo di Carlo Magno,
l'incoronazione sarebbe stata decisa da Leone III all'insaputa di Carlo, il
quale, anzi, «non sarebbe neppure entrato in chiesa se avesse potuto
conoscere in anticipo il progetto del pontefice». Questa versione non
sembra molto credibile: è impensabile che un evento di tale portata non
fosse stato preventivamente concordato e adeguatamente preparato in tutti i suoi
particolari, compreso quello della finta sorpresa di Carlo. Una finzione che
poteva tornare utile, tanto per cominciare, con l'aristocrazia franca,
probabilmente poco soddisfatta dell'accaduto: che Carlo fosse stato acclamato
imperatore dal popolo di Roma stava a significare che il nuovo Impero era
romano, non franco e la presunta sorpresa era per Carlo un modo per blandire la
suscettibilità dei suoi vassalli.
Ma l'ambiguità di cui si
volle circondare la cerimonia riguardava anche altri e più delicati
problemi: i rapporti tra imperatore e papa e quelli tra il nuovo Impero
«Romano» e il vecchio Impero di Bisanzio. Per quanto riguarda i
rapporti tra Carlo e Leone III, almeno da un punto di vista pratico, erano molto
chiari. L'appoggio di Carlo era per Leone un indispensabile fattore di
sicurezza, senza il quale il papa non avrebbe saputo come mantenersi in Roma;
viceversa, il consenso del Papato (che si era fatto a suo modo custode e
interprete della tradizione romana) costituiva la sola possibile forma di
legittimazione della decisione presa da Carlo di restaurare l'antico Impero. Per
il momento era questo che contava.
Restava però irrisolta una
fondamentale questione di principio: quale delle due autorità doveva
essere considerata superiore, quella pontificia o quella imperiale? Se nessuna
delle due era superiore all'altra, come era possibile distinguere le reciproche
sfere di competenza? In altre parole, dove finiva la religione e dove cominciava
la politica? Ma poi, in uno Stato cristiano (Res Publica Christiana), quale era
l'impero di Carlo, che esportava il cristianesimo sulla punta delle spade e
imponeva l'amor di Dio con il terrore, era davvero possibile o desiderabile
separare la politica dalla religione?
L'incoronazione di Carlo in Roma non
poteva passare inosservata a Bisanzio (Costantinopoli), capitale di quel che
restava dell'Impero Romano d'Oriente. Qui regnava l'imperatrice Irene che si
considerava l'unica legittima erede degli imperatori romani e che perciò
era propensa a considerare l'incoronazione di Carlo come una usurpazione. Sulle
prime, comunque, i rapporti fra Irene ed il nuovo imperatore d'Occidente furono
improntati a reciproca cautela: Carlo non ottenne alcun riconoscimento formale,
ma in entrambi c'era il desiderio di superare in qualche modo l'imbarazzante
situazione. Si giunse persino a prospettare un matrimonio fra i due, che avrebbe
eliminato ogni contrasto. La situazione mutò radicalmente nell'802 con
l'avvento del nuovo imperatore bizantino Niceforo, che scelse un atteggiamento
di aperta ostilità verso Carlo. Ci sarebbe stata la guerra, se le due
potenze avessero avuto modo di fronteggiarsi militarmente: ma l'Impero di
Bisanzio poteva contare soltanto su forze navali e l'Impero Carolingio soltanto
su forze di terra. Così, a parte qualche scontro sulle coste adriatiche,
prevalsero le dispute diplomatiche, che si trascinarono fino all'812. In
quell'anno, finalmente, si celebrò ad Aquisgrana, alla presenza degli
ambasciatori bizantini, una solenne cerimonia in cui venne dichiarata la
legittimità dell'impero di Carlo e riconosciuta ufficialmente la sua
autorità. Da quel momento tornava a sussistere, non solo di fatto, ma
anche di diritto, quell'Impero Romano d'Occidente che era scomparso dalla scena
da oltre tre secoli.
CARLO MAGNO NELLA BIOGRAFIA DI EGINARDO
Secondo la precisa descrizione del suo
biografo Eginardo, Carlo Magno era piuttosto alto, aveva occhi grandi, capelli
bianchi, un naso più grande della media, un collo troppo corto ed il
ventre sporgente. Negli ultimi quattro anni della sua vita era stato colpito
frequentemente da febbri. Finì anche per zoppicare da un piede. Odiava i
medici perché gli proibivano di mangiare le carni arrostite di cui era
ghiotto. Vestiva secondo il costume dei Franchi.
Durante la cena amava
ascoltar musica o qualche lettura. Gli piacevano i libri di Sant'Agostino. Aveva
imparato il latino, tanto da poterlo parlare come la sua lingua, e conosceva
anche un po' di greco, che però non sapeva parlare. Gli erano stati
maestri Pietro da Pisa per la grammatica, e il diacono Alcuino, l'uomo
più sapiente di quei tempi, per le altre discipline. Incoronato
imperatore il figlio Ludovico (813), l'anziano sovrano da tempo colpito dalla
podagra, si ritirò ad Aquisgrana, dove morì il 28 gennaio
dell'814. È sepolto nella stessa Aquisgrana, presso la Cappella
palatina.
LA ROTTURA DELL'UNITÀ MEDITERRANEA
Mentre l'Impero Romano d'Occidente si era
sfasciato sotto i colpi delle invasioni barbariche, l'Impero d'Oriente, grazie a
una struttura economica e a un'organizzazione statale (militare e burocratica)
più solide, era riuscito a sopravvivere e, come Impero Bizantino (da
Bisanzio o Costantinopoli, sua capitale), durò ancora per un millennio.
Un tentativo di riconquistare la parte occidentale dell'Impero era stato fatto
nel VI secolo dall'imperatore Giustiniano (527-565) che in effetti riuscì
a rientrare in possesso di alcune regioni, tra cui l'Italia. Ma il suo ambizioso
progetto di ricostituire l'antica unità del Mediterraneo era destinato al
fallimento: la società occidentale nata dalla fusione dei popoli
germanici con le popolazioni latine o latinizzate dell'Europa costituiva una
realtà del tutto nuova, per la quale un ritorno al passato era
impossibile. L'Occidente e l'Oriente mediterranei avrebbero avuto sviluppi
autonomi e diversi: dopo molti secoli di unità, tornava ad affermarsi su
questo mare una varietà di centri di civiltà e di potere
rivali.
In questo senso il VII secolo rappresentò una svolta:
l'Impero Bizantino, sotto il governo di Eraclio, si dette un'organizzazione
nuova, conforme alle sue effettive esigenze, che lo portavano a disinteressarsi
della povera e rozza società occidentale e ad occuparsi, invece, molto
seriamente del suo grande rivale, l'Impero Persiano. Lo scontro con i Persiani
si risolse a favore di Bisanzio, ma le lunghe e dure ostilità avevano
indebolito entrambi i contendenti e nel vuoto da loro lasciato nel Vicino
Oriente poté inserirsi, con imprevedibile furia, la nascente potenza
araba. La comparsa degli Arabi e dell'Islam sulle sponde del Mediterraneo e il
loro dilagare dalla Siria alla Spagna ebbero un'importanza molto maggiore della
separazione tra l'Occidente europeo e l'Oriente bizantino, che nonostante tutto,
conservavano una certa unità spirituale: erano entrambi cristiani e, pur
nella diversità delle esperienze politiche, si richiamavano entrambi al
modello dell'antico Impero Romano. Gli Arabi, invece, erano portatori di una
civiltà nuova, ostile contemporaneamente al Cristianesimo e alla
romanità.
La comune minaccia poteva suggerire l'opportunità
di un riavvicinamento, ma i rapporti dell'Impero Bizantino con i potentati
cristiani dell'Occidente restarono burrascosi, in un alternarsi di alleanze e di
aperte ostilità. Si approfondì in particolare la divisione tra la
Chiesa ortodossa, che faceva capo al patriarca di Costantinopoli, e quella
occidentale, che riconosceva come sua massima autorità il vescovo di
Roma.
Contro gli Arabi, sia l'Impero Bizantino, sia la Cristianità
occidentale riuscirono, dopo la sorpresa iniziale, ad organizzare una difesa
efficace e l'avanzata dell'Islam fu arrestata. L'Impero Bizantino, in
particolare, tenne saldamente l'Anatolia (o Asia Minore, l'attuale Turchia) fin
dopo il Mille, quando a poco a poco dovette ritirarsi sotto la pressione di una
nuova ondata di invasori: si trattava delle bellicose popolazioni turche, che,
convertite all'Islam, ridiedero slancio all'espansione musulmana nel
Mediterraneo in un momento in cui anche la potenza araba si avviava a un lento
declino. In ogni caso, fino alla caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi,
nel 1453, il Mediterraneo si presentò diviso in tre grandi aree fra di
loro prevalentemente ostili: la romana, la bizantina e la
musulmana.
LA BREVE VITA DELL'IMPERO
La «restaurazione» dell'Impero era
tale solo in teoria: di fatto, come si è già accennato, si
trattava di una cosa affatto nuova. Innanzi tutto l'Impero di Carlo Magno, il
Sacro Romano Impero, si configurava essenzialmente come Res Publica Christiana,
ossia come l'organismo politico comune a tutti i popoli che si riconoscevano
nella fede cristiana secondo la professione del vescovo di Roma: il suo
attributo di «romanità» si esauriva, dunque, nel legame con la
Chiesa e col Papato. In secondo luogo i confini del Sacro Romano Impero non
coincidevano affatto con quelli dell'Impero Romano d'Occidente. Costruito a
cavallo dell'antica frontiera sul Reno e sul Danubio, comprendeva più o
meno la Francia, la Germania e l'Italia attuali: poca cosa rispetto al passato,
ma soprattutto qualcosa di molto diverso.
Mancava la sponda africana e
quasi per intero la penisola iberica. Il mare, che aveva avuto un ruolo
fondamentale nella vita dell'antico Impero Romano, stava scomparendo
dall'orizzonte degli Europei ed anzi era diventato un'area di pericolo,
infestata da predoni, da cui era molto meglio star lontani. La caratteristica
principale dell'antico Impero Romano era stata l'intensa vita cittadina,
sostenuta da una fitta rete di comunicazioni terrestri, fluviali e marittime.
L'Impero di Carlo, invece, era segnato da un assoluto predominio dei villaggi
agricoli, pressoché isolati l'uno dall'altro e immersi nelle foreste e
nell'incolto; quanto alle città non erano più che sparuti abitati
dove le case si frammezzavano ad orti e a mucchi di rovine.
Ma la
differenza forse più importante (perché in un certo senso le
riassumeva tutte) riguardava l'apparato politico-amministrativo dello Stato.
Quello dell'Impero Romano si era sfasciato da tempo e nulla di simile gli si era
sostituito. Carlo, che era perfettamente cosciente delle difficoltà di
controllare dal centro un organismo vasto come lo Stato franco in una
società disperatamente povera di servizi, di capacità
amministrative, di mezzi di comunicazione e dominata in ogni parte dalla
violenza, non si era preoccupato soltanto di estendere il suo impero e di
eliminare ai confini i possibili nemici. Le sue campagne militari erano state
precedute e accompagnate da una serie di riforme dirette a riorganizzare
l'apparato statale in funzione di un consolidamento del potere monarchico,
secondo una politica che era già stata abbozzata nelle sue linee
essenziali da Carlo Martello e da Pipino il Breve. Si trattava in sostanza di
escogitare meccanismi di controllo centrale conciliabili con la necessaria
autonomia dei poteri locali, che, data l'inefficienza del sistema di
comunicazioni, erano i soli in grado di esercitare quotidianamente le normali
funzioni di governo e di intervenire efficacemente in caso di emergenza. Carlo
Magno riuscì, bene o male, nell'intento, ma dopo di lui l'autorità
del centro scomparve rapidamente a tutto beneficio dei poteri
periferici.
Gli organismi fondamentali nei quali si articolava il regno
carolingio erano le contee (all'epoca di Carlo Magno ne esistevano 230),
affidate a membri dell'aristocrazia franca fedeli alla casa regnante. I conti
ricevevano tutti i poteri amministrativi, giudiziari, fiscali e militari
direttamente dal re ed erano tenuti a rispondere del loro operato solo al re,
che in qualsiasi momento poteva revocare la carica loro assegnata. Nei territori
di confine, dove maggiori e più pressanti erano le esigenze di difesa
militare, vennero create delle organizzazioni territoriali più vaste, le
marche, affidate al governo di un duca o di un marchese. A complemento e a
correzione di questa struttura fondata sulla delega dei poteri sovrani ai conti
e ai marchesi, c'erano i missi dominici (= «inviati del signore»,
ossia del re), veri e propri ispettori con l'incarico di controllare
periodicamente l'operato dei dignitari laici ed ecclesiastici nelle rispettive
giurisdizioni.
Il conte e il missus dominicus costituivano quello che
potremmo definire il corpo amministrativo ufficiale dello Stato carolingio. Ma
le difficoltà di tenere effettivamente sotto controllo l'enorme Impero
Franco indussero Carlo Magno a integrare queste due figure di funzionari con
quella del vassallo (o vassus dominicus) la cui obbedienza era garantita da un
vincolo di natura morale più che giuridica. Si trattava di un nobile o
comunque di un uomo libero (ossia di condizione non servile) legato al sovrano
(il dominus) da un vincolo di fedeltà personale che, sanzionato da un
solenne giuramento, assumeva un carattere sacro, irrevocabile e inviolabile.
Compito del vassallo era di assistere il re in pace e in guerra con la propria
opera, con il proprio consiglio e con i propri beni. Come contropartita dei
servigi prestati, il vassallo riceveva dal re i mezzi per vivere nobilmente
(ossia senza lavorare) e all'altezza del proprio rango. Poiché di solito
questa contropartita (il «beneficio» o «feudo») consisteva
in concessioni di terre (con la relativa dotazione di contadini-servi), intorno
al sovrano si consolidò un'aristocrazia di guerrieri e di ecclesiastici,
nella quale il prestigio e il potere di ciascuno era pressappoco proporzionale
alla consistenza delle terre avute in beneficio.
Non è difficile
vedere quale fosse sotto questo aspetto la differenza tra il nuovo Impero e
l'antico. L'Impero Romano aveva tratto i suoi funzionari e i suoi agenti da una
classe relativamente vasta di proprietari terrieri, che però vivevano in
città e partecipavano attivamente alle magistrature cittadine. Queste
magistrature operavano con ampia autonomia, ma nel quadro di un solido sistema
di norme giuridiche che, tra l'altro (almeno in linea di principio) garantiva a
tutti i cittadini romani uguali diritti. L'Impero Carolingio si reggeva invece
sul potere mal definito di un ceto di guerrieri e di ecclesiastici, vescovi e
abati, i cui interessi erano interamente rivolti al possesso della terra; legati
alla persona del sovrano da un semplice patto di fedeltà, solo l'esile
garanzia di un giuramento ne frenava le ambizioni.
Il Sacro Romano Impero
era quel che si dice «un gigante dai piedi d'argilla». Morto il suo
fondatore, cominciò il graduale logoramento delle sue strutture: i
territori dell'Impero finirono con l'essere spartiti tra i successori di Carlo
Magno e i frequenti contrasti tra i diversi sovrani carolingi minarono un po'
dovunque l'autorità della monarchia. Gran parte delle misure adottate da
Carlo per garantire il buon funzionamento dell'apparato statale e il controllo
del governo centrale sulle autorità locali si rivelarono alla lunga
insufficienti. Funzionari e vassalli desiderosi di conquistare una maggiore
autonomia o abbandonati a se stessi di fronte alla drammatica emergenza di una
nuova ondata di scorrerie e invasioni che quasi all'improvviso si riversò
sull'Europa, finirono per sottrarsi ad ogni disciplina.
IL TRATTATO DI VERDUN
Appena trent'anni dopo la morte di Carlo
Magno, nell'843, il trattato di Verdun metteva fine al sogno dell'unità
imperiale e alle lotte familiari scoppiate tra gli eredi di Carlo. Il figlio di
Carlo, Ludovico (778-840), detto il Pio perché si affidava interamente ai
grandi prelati della sua corte (il che non gli impedì di imporre al papa,
nell'824, il giuramento di fedeltà, facendo del Dominio di San Pietro un
protettorato franco), aveva tenuto fede come aveva potuto a quel sogno, ma i
suoi figli, Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, non esitarono, alla
morte del padre, ad azzuffarsi per la spartizione dell'Impero. Il trattato di
Verdun attribuì a Carlo il Calvo la Francia, a Ludovico la Germania e a
Lotario quel che restava e cioè una lunga fascia di territorio
comprendente la Renania, la Borgogna e l'Italia. Nessuno dei tre regni carolingi
riuscì però a sopravvivere a lungo, stretti tra i devastanti
attacchi di Arabi, Normanni e Ungari all'esterno e l'incorreggibile indisciplina
dei feudatari all'interno.
CLERO, LAICATO, PRIVILEGI ECCLESIASTICI, ABATE
Il termine «clero» (dal greco
klèros = «parte eletta di una comunità») indica nella
chiesa cristiana quella categoria di persone cui è affidato uno speciale
compito di guida spirituale, con speciali diritti e speciali doveri. In pratica
è l'insieme dei preti (dal greco presbyleros, comparativo di
présbys = «anziano») inteso come categoria distinta dal laicato
(dal greco laikòs = «profano», derivato di laòs =
«popolo») e cioè dal resto dei fedeli. Il clero
«secolare» è costituito dai preti che vivono nel
«secolo» ossia (nel linguaggio ecclesiastico) nella società, in
mezzo al popolo. Il clero «regolare» è invece costituito dai
religiosi che vivono separati dal popolo in conventi o monasteri o
comunità religiose e che sono tenuti ad osservare la «regola»
dell'ordine a cui appartengono.
Il clero cristiano, dal tempo di Costantino
in poi, ha accumulato una massa impressionante di «diritti speciali» e
cioè di «privilegi» (dal latino lex = «legge» e
privus = «solo», unico: è, appunto, un diritto speciale, una
legge che vale solo in un caso). Tra i privilegi ecclesiastici meritano
particolare attenzione due tipi di immunità: quelle fiscali, per cui gli
ecclesiastici erano esentati dall'obbligo di pagare le tasse, e quelle
giudiziarie, per cui gli ecclesiastici non potevano essere giudicati dai giudici
e dai tribunali comuni (laici), ma erano sottoposti a una giurisdizione speciale
(foro ecclesiastico).
«Abate» (o «abbate») deriva
dall'aramaico 'abba = «padre», attraverso il greco abbàs e il
latino abbas. In Oriente, in epoca paleocristiana, era l'appellativo con cui si
indicavano i monaci più anziani (o anche i monaci in generale). In
Occidente, introdotto dalla Regola di San Benedetto (secolo VI), fu invece il
titolo che spettava al capo di un monastero (che perciò viene detto
«abbazia»). Tipica creazione benedettina, la figura dell'abate
è presente anche presso i monaci di San Basilio, i canonici regolari e
gli eremiti di San Gerolamo. Di norma l'abate veniva eletto direttamente dalla
comunità monastica; nel Medio Evo però non furono rari i casi di
abati nominati da principi o feudatari e, pertanto, investiti anche di poteri
signorili-feudali.
Nella struttura delle gerarchie ecclesiastiche la
dignità dell'abate è immediatamente successiva a quella del
vescovo; nel Medio Evo, tuttavia, le maggiori abbazie benedettine (come
Montecassino) furono svincolate dalla giurisdizione episcopale e godettero di
una sorta di extraterritorialità nei riguardi degli organismi diocesani
(si dissero, quindi, nullius dioecesis = «di nessuna diocesi»). Per
analogia, si chiamano «abbadesse» o «badesse» (dal latino
abbalissa) le monache rettrici dei monasteri femminili di suore
benedettine.
UNA FORTEZZA ASSEDIATA
Il IX e il X secolo sono stati definiti
«i secoli di ferro e di piombo» del Medio Evo per l'interminabile
assedio a cui l'Europa fu sottoposta su tutti i fronti e per le generali
condizioni di violenza, di insicurezza, di paura che ne erano derivate. Gli
Arabi (o Saraceni, come nel Mediterraneo venivano comunemente chiamati, con
parola greca, i musulmani) continuavano a premere da Sud contro la fortezza
cristiana, riuscendo talvolta a penetrare profondamente nelle sue difese. Ma a
loro si erano aggiunti gli Ungari da Est, e i Normanni da Nord.
Tra gli
Arabi e i nuovi aggressori c'era una differenza fondamentale. Gli Arabi erano
portatori di una grande civiltà mediterranea, per molti aspetti non
dissimile da quella europea e più progredita di questa, giacché
l'Islam aveva saputo raccogliere meglio di quanto non avesse fatto l'Europa
cristiana l'eredità culturale del mondo classico. Là dove
riuscivano ad insediarsi stabilmente, come accadde in Spagna o in Sicilia, gli
Arabi promuovevano uno sviluppo economico e civile di cui anche l'Europa
cristiana finiva per godere i benefici. Ungari e Normanni erano invece del tutto
estranei alla cultura dei popoli mediterranei e si rovesciavano sull'Europa come
una pura, brutale forza distruttiva.
Gli Ungari (o Magiari, dal nome della
loro tribù più potente) erano un popolo nomade, le cui origini
restano piuttosto oscure, anche se è certa la loro provenienza dalle
steppe euroasiatiche. Nel corso del IX secolo erano penetrati nella pianura
danubiana incuneandosi tra gli Slavi del Nord (che occupavano un'area
pressappoco corrispondente alla Polonia e alla Russia attuali) e quelli del Sud
(stanziati nell'attuale Jugoslavia). Dalle loro nuove sedi presero a lanciare
ogni primavera micidiali spedizioni a scopo di bottino e di razzia contro la
Germania, contro l'Italia e addirittura contro la Francia. In Italia le loro
bande si spinsero fino alle Puglie; al Nord, tra le grandi città
italiane, riuscirono a espugnare perfino Pavia. Di solito però gli Ungari
non perdevano tempo ad attaccare le città fortificate; scorrevano le
campagne oppure si dirigevano verso i nuclei abitati non adeguatamente difesi da
cinta murarie. Per lo più chi cadeva nelle loro mani era destinato ad
essere venduto come schiavo.
Pastori di cavalli e guerrieri, gli Ungari
avevano una straordinaria mobilità: si spostavano senza trascinarsi
dietro bagagli o masserizie di alcun genere; si nutrivano col latte delle
giumente e con quel che trovavano sulla loro strada, ossia coi prodotti della
caccia e della rapina. Sembravano incapaci di assuefarsi ad un sistema di vita
sedentario e disciplinato e occorse più di un secolo perché ne
adottassero le abitudini. La formazione di uno Stato unitario (che si sovrappose
alla vecchia organizzazione per tribù) e poi la conversione al
Cristianesimo ad opera del loro primo re, Stefano (969-1038), più tardi
fatto santo dalla Chiesa di Roma, segnarono l'abbandono del loro tradizionale
sistema di vita e il loro ingresso tra i popoli d'Europa. Da quel momento il
Regno di Ungheria diventò uno dei baluardi dell'Europa cristiana contro
le rinnovate minacce provenienti da oriente e da sud.
Con il termine
Normanni, che significa «uomini del Nord», viene indicato
genericamente l'insieme delle popolazioni stanziate nei territori della Svezia,
della Norvegia e della Danimarca attuali. Se gli Ungari erano essenzialmente un
popolo di nomadi e di pastori, i Normanni erano innanzitutto degli esperti
marinai che, alla ricerca di bottino e di terre più fertili di quanto non
fossero quelle della Scandinavia, solcarono con continuità i mari
circostanti nelle più svariate direzioni sfruttando i fiumi come vie di
penetrazione verso l'interno. Quelli che identifichiamo con i Vichinghi si
spinsero fin verso l'Islanda, la Groenlandia e, molto probabilmente, le coste
nordamericane. Un altro nucleo, i Vareghi (o Variaghi), si spinse lungo i grandi
fiumi russi fino al Mar Nero. Per questa via si stabilì un intenso
traffico commerciale tra il Nord Europa e il mondo mediterraneo.
Altre
popolazioni del Nord, infine, organizzarono ripetute e devastanti spedizioni
contro l'Inghilterra e la Francia del Nord. In Normandia (che deve il suo nome
al loro insediamento) finirono con lo stanziarsi in qualità di vassalli
del Re di Francia e un duca di Normandia, Guglielmo, detto il Conquistatore,
guidò nel 1066 una spedizione contro l'Inghilterra, di cui si
impadronì stabilmente, sottomettendo le popolazioni anglosassoni e
fondando la moderna monarchia inglese. Infine, nel corso di avventurose
migrazioni, gruppi di Normanni giunsero nel Mediterraneo e tra l'XI e il XII
secolo si stabilirono nell'Italia meridionale dove, vinti i potentati locali e
scacciati gli Arabi dalla Sicilia, fondarono un proprio regno.
LA RUSSIA DI KIEV
A chi la percorre in direzione Nord-Sud la
pianura russa presenta una grande varietà di ambienti. All'estremo Nord
c'è la tundra, gelata e inospitale, con la sua povera vegetazione di
arbusti, licheni e muschi. Alla tundra succede gradualmente la taiga, una
foresta di aghifoglie ricca di animali da pelliccia. Poi cominciano i fertili
terreni agricoli, ma ancora più a sud, dove il clima diventa più
secco, prevalgono le steppe, che in qualche caso assumono carattere desertico. A
dispetto di questa varietà di ambienti, la pianura russa conserva una
sostanziale unità in virtù dei grandi fiumi, in gran parte
navigabili, che la attraversano: Ural, Volga, Don, Dnepr, Bug, Dnestr verso sud,
Njemen, Dvina occidentale e settentrionale verso Nord.
Le origini della
Russia moderna risalgono alla fusione di due popoli che sfruttando le vie
fluviali fecero di questa regione una delle più importanti aree del
commercio medievale: gli Slavi e i Variaghi. Con la rottura dell'unità
mediterranea dovuta alle invasioni Arabe, nelle comunicazioni tra Europa e Asia
e tra Europa meridionale e settentrionale erano stati valorizzati percorsi
alternativi. Uno di questi, dal Baltico al Mar Nero e di qui a Bisanzio, passava
per la regione dei grandi fiumi russi dove appunto nel VII secolo d.C. si erano
insediati gli Slavi (mentre altre popolazioni dello stesso gruppo stavano
penetrando nei Balcani e in Polonia). Lungo gli itinerari commerciali che
collegavano l'Europa del Nord con il Mediterraneo sorsero centinaia di
città, alcune delle quali destinate a raggiungere un alto grado di
sviluppo.
La principale minaccia alla floridezza della regione veniva dalla
sua instabilità politica. Fu appunto per superare questa situazione che
nel IX secolo Novgorod, uno dei più importanti centri cittadini, si diede
a un condottiero variago, Rjurik. I Variaghi da tempo si erano affiancati agli
Slavi nel commercio tra Baltico e Mar Nero; dal IX secolo furono i protagonisti
di una vasta operazione di unificazione e di pacificazione della zona. Da
Novgorod Rjurik e i suoi successori mossero verso sud, conquistando prima
Smolensk e poi Kiev, che divenne la capitale del nuovo principato, il cui
obiettivo fondamentale fu di mantenere sgombra la strada per Bisanzio. Con
Bisanzio le relazioni non furono sempre pacifiche, ma i Bizantini restavano i
principali clienti dei mercanti russi e i due popoli finirono con l'avvicinarsi
anche culturalmente: alla fine del X secolo il principe di Kiev si
convertì al cristianesimo introducendo nel Paese un'organizzazione
ecclesiastica modellata su quella bizantina e caratterizzata dalla
subordinazione del clero all'autorità politica.
Nel XII secolo lo
Stato fondato da Rjurik si frazionò in numerosi principati uniti fra di
loro da legami sempre più deboli. All'origine della decadenza di Kiev
furono i dissidi interni all'aristocrazia, gli attacchi di popoli stranieri, gli
intrighi della sempre attivissima diplomazia bizantina. Ma una delle ragioni di
fondo che portò al crollo del primo Stato russo fu il declinare
dell'importanza commerciale dell'itinerario Mar Baltico-Mar Nero. Le crociate
che, come vedremo la Cristianità occidentale aveva lanciato contro i
popoli dell'Islam nel tentativo di conquistare i cosiddetti «Luoghi
Santi» della Palestina erano servite, se non altro, a contestare la
superiorità marittima musulmana nel Mediterraneo e avevano riaperto ai
popoli dell'Europa meridionale la strada per il Levante. Genova e Venezia
penetravano da dominatrici nel Mar Nero: a scapito delle vie fluviali e
terrestri che attraversano la Russia, il commercio internazionale tornava ad
utilizzare le antiche rotte marittime.
LA SOCIETÀ FEUDALE
Anche se alla fine Ungari e Normanni furono
assorbiti dalla società europea e vi si integrarono positivamente, le
conseguenze del disordine, delle violenze e delle distruzioni che avevano
seminato per ogni dove in oltre un secolo di scorrerie, furono ravissime. Non
soltanto le monarchie carolingie crollarono, mostrando quanto fosse fragile la
pretesa «restaurazione» imperiale operata da Carlo Magno, ma qualsiasi
potere non puramente locale parve eclissarsi. Era forse inevitabile che fosse
così: come la vita economica si stava concentrando nelle piccole
comunità semi-isolate e autosufficienti, così il potere politico
si disgregava al centro e passava progressivamente nelle mani di chi aveva
effettivamente la possibilità di esercitarlo, e cioè di quei
feudatari che erano a più diretto contatto con la terra e che
controllavano e dirigevano le popolazioni rurali proteggendone
l'esistenza.
«Il re non ha più del re che il nome e la
corona; non è più capace di difendere dai pericoli che li
minacciano né i suoi vescovi né gli altri suoi sudditi.
Così vediamo che tanto gli uni quanto gli altri se ne vanno a servire i
grandi signori con le mani giunte. E con questo ottengono la
pace».
Così si esprimeva, attorno al 1016, un prelato
germanico a proposito del regno di Borgogna. A quel tempo, in verità, la
società europea stava riorganizzandosi e ritrovando un po' di ordine:
l'attività economica dava i primi sicuri segni di risveglio e, dopo
secoli di declino, anche la popolazione tornava ad aumentare. L'agricoltura,
perno e limite dell'economia dell'alto Medio Evo, conosceva progressi
quantitativi e qualitativi di dimensioni mai viste prima. Ma la situazione
così efficacemente descritta in quelle poche righe dal nostro prelato, si
era ripetuta nei due secoli precedenti con angosciosa monotonia in ogni parte
d'Europa.
L'incertezza del domani, la paura dell'isolamento e, non ultima,
la fame avevano spinto una quantità di uomini liberi a rifugiarsi, per
così dire, nella servitù: e cioè a offrirsi come servi a
quei signori che erano in grado di assicurare una qualche protezione ai propri
dipendenti e che, nella latitanza dei poteri centrali, si erano assunti il
compito di organizzare e dirigere a livello locale la convivenza sociale.
Costoro si erano preoccupati soprattutto di difendere la popolazione dagli
attacchi esterni costruendo castelli e arruolando uomini d'arme. Ma il bisogno
di protezione, che spingeva i contadini a rinunciare alle proprie terre e alla
propria libertà per mettersi sotto la protezione dei signori, induceva
gli stessi signori a mettersi a servizio di signori più potenti di loro,
in una rete di dipendenze personali che finì per abbracciare, dal basso
in alto, tutta la società europea. È quella che un grande storico
e filosofo napoletano del primo Settecento, Giambattista Vico (1668-1744),
chiamava «l'eterna legge dei feudi»: la paura (che, quando manca un
potere pubblico capace di assicurare una pacifica convivenza, è la
condizione in cui è costretta a vivere la maggioranza) genera
servitù.
Ne era risultata una società a struttura piramidale,
la cui base era costituita dalla grande massa dei contadini asserviti e al cui
vertice stava il sovrano, che poi non era altro che un signore più
potente degli altri, e cioè un signore abbastanza potente da non dover
riconoscere alcun signore sopra di sé. In mezzo c'era un'aristocrazia
variamente stratificata di guerrieri, titolari di feudi e castelli, e di
prelati, titolari di feudi e abbazie. In questa società nessuno, salvo il
sovrano, era propriamente libero (almeno nel senso che oggi diamo a questa
parola) giacché ciascuno si riconosceva vassallo di qualcun altro, e
cioè, come si diceva, «uomo di un altro uomo». A qualsiasi
livello della gerarchia sociale la richiesta di protezione e l'offerta di
servigi era la regola delle relazioni interpersonali e nessuno sfuggiva
all'obbligo di servire.
C'erano, naturalmente, delle differenze.
Così, ad esempio, tra la condizione del nobile vassallo e quella di un
semplice contadino una prima e fondamentale differenza stava nel fatto che l'uno
aveva il diritto di scegliersi il signore da servire e poteva avere a sua volta
vassalli che lo servivano (valvassori, vassi vassorum = «vassalli di
vassalli»), mentre l'altro nasceva servo, non aveva alcuna facoltà
di scelta, e non poteva esercitare la sua autorità su alcuno, all'infuori
della propria famiglia (della quale per altro poteva far parte qualche
schiavo).
Un'altra differenza, non meno importante, riguardava la natura
dei servizi prestati, che nel caso del vassallo consistevano nell'espletamento,
per conto del signore, di onorevoli e proficue funzioni di carattere militare o
amministrativo, mentre nel caso del servo consistevano nella semplice erogazione
di lavoro manuale, ossia nell'esercizio di banali, poco redditizie e
universalmente disprezzate attività produttive.
Le istituzioni
fondamentali di questa società, che chiamiamo «feudale» e il
cui avvento ha segnato nella storia europea il momento di massimo oscuramento
dell'autorità statale, erano le stesse a cui i sovrani carolingi avevano
affidato la sopravvivenza del proprio potere: il vassallaggio e il beneficio (o
feudo). La terra era la fonte pressoché esclusiva della ricchezza e del
potere e la concessione di terre era in pratica la sola possibile forma di
remunerazione dei servigi resi dal vassallo al suo signore. Chi riceveva
l'investitura di un feudo si impegnava a servire fedelmente chi gliela aveva
concessa sia in pace, sia in guerra. Il feudo era appunto il compenso per questi
servigi. In questo sta la particolarità del possesso feudale della terra:
il feudatario (ossia il vassallo titolare del beneficio) non era il padrone
assoluto (il proprietario) della terra, ma ne aveva soltanto l'usufrutto e,
almeno teoricamente, poteva essere privato del beneficio qualora fosse venuto
meno agli obblighi contratti con il signore.
La concessione di terre da
parte di un sovrano si accompagnava sempre alla trasmissione al vassallo di un
certo numero di poteri quali la facoltà di riscuotere imposte, di
amministrare la giustizia, di costituire e comandare corpi armati, di battere
moneta e così via. L'investitura di un feudo, dunque, non significava
soltanto per il titolare l'acquisizione di specifici diritti sulla terra e sulle
sue rendite, ma anche l'assunzione di una autorità (spesso mal definita)
sulle persone che su quella terra vivevano. Bisogna anzi sottolineare con forza
che il feudo non era propriamente un'unità economica, ma politica: era
una «giurisdizione», ossia l'ambito territoriale entro il quale il
vassallo aveva il diritto di esercitare i poteri che gli erano stati concessi.
Dal punto di vista economico l'unità produttiva, ossia l'azienda da cui
il titolare del beneficio traeva i suoi redditi, era la villa o curtis.
Una
giurisdizione feudale poteva comprendere più villae o curtes e non
necessariamente i suoi confini coincidevano con quelli delle villae o curtes
concesse in usufrutto.
In teoria i vassalli dovevano rispondere al proprio
signore del modo in cui esercitavano questa autorità. In pratica
governavano i propri dipendenti senza alcun controllo efficace da parte dei
poteri superiori. Fin dall'età carolingia i feudatari regi godevano di
due fondamentali «immunità» (latino munera = doveri e in -
privativo: «esenzioni da obblighi o servizi»): l'esenzione dal
pagamento di determinati tributi e il privilegio di non consentire l'ingresso
nel proprio feudo a ufficiali, giudici e ispettori regi. Ciò equivaleva a
una delega senza condizioni dei fondamentali poteri dello Stato ai feudatari, i
quali sulle proprie terre potevano riscuotere tasse e gabelle e amministrare la
giustizia come meglio credevano. Col tempo e con l'indebolirsi del potere
monarchico, i grandi feudi concessi dal re, da temporanei, quali erano
all'inizio, diventarono vitalizi, e da vitalizi diventarono ereditari.
Naturalmente ereditare un feudo significava ereditare anche gli obblighi che gli
erano connessi. È evidente però che con l'ereditarietà dei
feudi crebbe enormemente l'autonomia di cui i feudatari godevano nei confronti
del sovrano e non c'è da stupirsi che a lungo andare al re, come diceva
il prelato citato più sopra, non restasse del re che il nome e la corona.
Il particolarismo politico, ossia la frammentazione del potere statale in una
miriade di poteri locali, è la caratteristica della prima età
feudale, dal IX all'XI secolo.
Fu però questo stesso sistema
feudale, causa ed effetto a un tempo della disgregazione del potere statale, a
evitare che la società europea precipitasse nel caos. Mentre le monarchie
non erano più in grado di controllare e difendere efficacemente i
territori a loro nominalmente soggetti, all'ombra dei castelli o dei grandi
monasteri fortificati continuava la vita civile. La popolazione dei villaggi,
per quanto rarefatta e asservita, continuava a produrre ed anzi, imparando un
po' da tutti, non esclusi i rozzi guerrieri che infestavano l'Europa (fossero
barbari invasori o signori feudali) e adattando alle arti della pace i ritrovati
delle tecniche belliche, realizzava continui, poco appariscenti, ma
importantissimi progressi nella lavorazione del terreno, nella fabbricazione di
strumenti di lavoro (aratri adatti a diversi tipi di terreno, attrezzi in ferro,
ecc.), nello sfruttamento dell'energia animale (la staffa per i cavalieri, i
ferri per proteggere gli zoccoli dei cavalli, i nuovi sistemi di attacco dei
cavalli da tiro, ecc.) e di quella inanimata (mulini ad acqua e a vento), e
così via.
Alla fine le società locali si ritrovarono
più ricche, la popolazione, dopo secoli di declino, tornò a
crescere, i villaggi si moltiplicarono, terre già abbandonate alla
foresta o alla palude tornarono ad essere seminate, sorsero nuove città o
risorsero le antiche. L'economia «chiusa» (ossia povera di scambi)
dell'alto Medio Evo carolingio e feudale veniva a poco a poco sostituita da
un'economia «di mercato»: i surplus che l'agricoltura era ormai in
grado di produrre in abbondanza grazie al maggior numero di braccia, alle nuove
tecniche di coltivazione e alle terre nuovamente messe a coltura, potevano
essere commercializzati; gli scambi più intensi imponevano il massiccio
ritorno alla moneta come strumento di pagamento respingendo a un ruolo del tutto
marginale il sistema del baratto; nei borghi e nelle città sorgevano
nuovi centri di traffico, mercati permanenti e fiere periodiche, mentre una
più ampia fascia di popolazione poteva dedicarsi specificamente al
commercio e all'artigianato.
Da secoli l'Europa era attaccata da tutte le
parti, come in un interminabile assedio. Dopo il Mille l'Europa occidentale,
feudale e cristiana, si trovò non solo più ricca di quanto non
fosse stata nell'ultimo mezzo millennio, ma anche più forte. La guerra
era (e sarebbe rimasta nei secoli futuri) una delle principali attività
economiche dell'Europa. Alcuni Stati europei potevano mettere in campo eserciti
numerosi e agguerriti. Alcune città di mare, specialmente in Italia
(Genova, Venezia, Pisa), avevano ritrovato il coraggio, l'utile e il gusto della
navigazione, ossia del commercio marittimo e della pirateria (inestricabilmente
legati fra di loro). Dall'XI secolo, in coincidenza con la ripresa economica e
demografica, cominciò la lunga (e crudele) vicenda dell'espansione
europea. Sino al XV secolo essa si sviluppò essenzialmente in tre
direzioni. A Est verso le terre degli Slavi: fu la cosiddetta «marcia verso
Oriente» (Drang nach Osten in tedesco) organizzata e diretta dai principi,
dai feudatari e dai cavalieri tedeschi (in particolare quelli dell'Ordine
Teutonico). A Ovest contro gli Stati islamici della penisola iberica: la
Reconquista, come la chiamavano gli Spagnuoli cristiani. Nel Levante
mediterraneo, infine, contro le potenze musulmane che controllavano la Terra
Santa: le crociate, dette così dalla croce che quanti vi partecipavano
portavano come contrassegno sul petto.
L'INVESTITURA
Il verbo investire che nel latino classico
aveva il significato letterale di «coprire con una veste», nel latino
medievale assunse quello traslato di «mettere qualcuno in possesso di
qualcosa»: per esempio, mettere il vassallo in possesso del feudo. Il
legame tra i due significati sta nel fatto che la cerimonia dell
«investitura» consisteva effettivamente in una «vestizione»
o, se si preferisce, in un «cambio d'abito», che naturalmente stava a
simboleggiare il mutamento di abito morale che era richiesto a chi, con
l'investitura, faceva l'ingresso in una nuova condizione di vita che comportava
doveri e impegni fuori del comune: era il caso del feudatario o del cavaliere,
ma anche del sacerdote, del monaco, ecc. La tonaca del prete o la toga del
giudice sono le moderne sopravvivenze dell'antica usanza della
vestizione.
Nella cerimonia dell'investitura feudale ogni gesto aveva un
significato preciso. All'origine essa era abbastanza semplice, ma col passare
del tempo e col perfezionarsi del sistema feudale divenne sempre più
ricca di particolari e, conseguentemente, di significati. In un giorno fissato,
spesso davanti alla popolazione del territorio su cui l'investito avrebbe
esercitato la sua giurisdizione, il vassallo si inginocchiava a capo scoperto di
fronte al suo signore che restava seduto a capo coperto. Ponendo le mani in
quelle del signore, il vassallo compiva l'atto di omaggio recitando la formula
di fedeltà. Il signore, a questo punto, gli porgeva un oggetto, come ad
esempio una spada una zolla, un mazzo di spighe, simbolo della trasmissione del
potere. Il potere così trasmesso consisteva in una serie di privilegi o
«immunità», tra i quali i più importanti (e i più
frequenti) erano quelli di riscuotere le tasse, di amministrare la giustizia, di
capitanare le milizie e, infine, di essere esentati in parte o in tutto dal
pagamento dei tributi. Il vincolo feudale impegnava sia il signore sia il
vassallo, costituiva, cioè, un rapporto bilaterale, anche se ineguale. Il
vincolo che si istituiva con la cerimonia dell'investitura feudale, era anche
più forte del vincolo di sangue (poteva accadere che due fratelli
combattessero l'uno contro l'altro per lealtà verso i rispettivi signori
in guerra fra loro) ed era destinato a durare fino alla morte o fino a che uno
dei due avesse mancato ai patti («fellone» è il termine, di
origine sconosciuta, con cui, a partire dal X secolo, veniva indicato chi veniva
meno agli obblighi vassallatici).
FEUDO, FIO, GIURISDIZIONE, ALLODIO
La parola feudum compare nel IX secolo ed
è la versione latina del franco fëhod che vuol dire, alla lettera,
proprietà (od) di bestiame (fëh a cui è legato anche il
tedesco moderno Vieh). Come dal latino pecus = bestiame è venuto pecunia
= ricchezza in forma di bestiame e quindi, per estensione, ricchezza in beni
mobili e infine «danaro», che è il bene mobile per eccellenza,
così da fëh è venuto feudum, ma nel senso di compenso pagato
per un servizio. Poiché in età altomedievale il denaro era
scarsissimo e la ricchezza si esprimeva essenzialmente in possedimenti terrieri,
il termine «feudo» ha finito per indicare soprattutto, con una sorta
di inversione di significato, la terra (bene immobile per eccellenza, l'esatto
opposto del bestiame) concessa dal signore al vassallo come compenso dei suoi
servizi.
«Feudo» si diceva in francese medievale feu, fiet, fieu
(in francese moderno: fief) da cui è venuto l'italiano «fio»
che da feudo è passato a indicare l'obbligo feudale e in generale ogni
forma di tributo o balzello. Oggi si adopera ancora, ma solo nella locuzione
«pagare il fio» (il balzello) con il significato specifico di subire
il castigo meritato.
Il feudo era una giurisdizione di governo e si
esprimeva essenzialmente nell'esercizio della funzione giudiziaria.
«Giurisdizione» significa, alla lettera, espressione o manifestazione
(latino dictio, derivato di dicere = dire) del diritto (iutis): è dunque
innanzi tutto l'autorità del giudice di amministrare la giustizia e di
pronunciare sentenze; più in generale è l'autorità di
esercitare un potere legittimo. La parola può indicare anche l'ambito
territoriale o di competenza entro il quale si esercita tale
autorità.
Il feudo era un possesso condizionato. Il sovrano,
infatti, o comunque il signore che concedeva il feudo a un vassallo, pretendeva
da questo fedeltà e una serie di servizi. In molti casi, poi, il feudo
era revocabile. Infine, sui beni feudali potevano continuare ad esistere altri
diritti di uso o di possesso (per esempio quelli dei contadini a cui erano
affidati i diversi poderi). Ai beni feudali si contrappongono i beni
«allodiali», ossia i beni di assoluta e incondizionata
proprietà, sui quali cioè non gravavano vincoli feudali. I due
modi di possesso, feudale e allodiale, sono esistiti l'uno accanto all'altro per
tutta l'età feudale, anche se spesso tendevano a confondersi (il
feudatario aveva interesse a considerare come allodiali ossia di piena
proprietà, i beni che possedeva per concessione feudale e che
comportavano determinati obblighi di servizio). Il termine allodio viene dal
franco alod che significa alla lettera «piena
proprietà».
LA CAVALLERIA
Nella lingua italiana le parole
«cavaliere» e «cavalleria» hanno significati diversi.
È cavaliere chi combatte a cavallo o, semplicemente, chi pratica
l'equitazione; è cavaliere chi si attiene nella vita di società (e
in particolare nei rapporti con il «gentil sesso») ad un determinato
codice di «cortesia»; è cavaliere chi per meriti veri o
presunti, viene insignito di tale onorificenza. Allo stesso modo, il termine
«cavalleria» può indicare l'arma di un esercito, oppure una
classe sociale, o, ancora, una particolare forma di comportamento. In pratica, i
valori di questi termini possono ricondursi a due: l'uno a carattere
strettamente tecnico-militare, l'altro a carattere politico-sociale. In
francese, a differenza dell'italiano, la distinzione è resa esplicita
dall'esistenza di termini diversi: cavalerie e cavalier nel primo significato,
chévalerie e chévalier nel secondo. Lo stesso accade nel tedesco
(reiterei e reiter nel primo, ritterschaft e ritter nel secondo) e nell'inglese
(cavalry e horseman, chivalry e knight).
Le ragioni di questa
duplicità di significati sono di natura storica e risalgono alle origini
e alle vicende della cavalleria. Ovunque si è manifestata, e per esempio
nella Grecia e in Roma antiche, la cavalleria ha teso a trasformarsi da semplice
arma dell'esercito a ordine sociale, da distinzione di censo (la classe di
quanti erano abbastanza ricchi da prestare il servizio militare a cavallo) a
casta aristocratica. È evidente che i gruppi che erano protagonisti di
questa trasformazione rivendicavano una superiorità sulla gente comune,
si appellavano a un diverso e più nobile sistema di valori (un
particolare concetto d'onore, ad esempio), e insomma seguivano un diverso codice
di vita (il codice cavalleresco, appunto).
Fra la cavalleria del mondo
antico e quella dell'età medievale ci sono molte analogie, ma nessuna
diretta filiazione. Nell'uno come nell'altro caso, si è trattato di
un'istituzione inizialmente a carattere militare che è finita per
costituirsi in gruppo politico e sociale, e in entrambi i casi essa reclutava i
propri membri nelle classi sociali elevate. Ma, operando in situazioni
profondamente diverse, la cavalleria antica e quella medievale non potevano non
avere finalità e caratteri affatto distinti.
Le origini vere e
proprie della cavalleria medievale si possono collocare nell'VIII secolo, al
tempo cioè della reazione antiaraba della Cristianità occidentale,
quando, per fronteggiare i temibili cavalieri musulmani anche gli eserciti
cristiani dovettero dotarsi di una forte compagine di cavalleria. Se in quei
frangenti nacque, o rinacque la cavalleria come istituzione militare, la sua
affermazione come istituzione politico-sociale venne solo col pieno sviluppo
delle strutture feudali. Fu al tempo del feudalesimo che l'obbligo di servire a
cavallo divenne segno distintivo di un determinato rango sociale.
Il punto
di partenza di questa evoluzione si può fissare al momento in cui i
grandi feudi concessi dai sovrani, che, come sappiamo, erano inizialmente
temporanei o vitalizi, divennero ereditari. Si sviluppò allora
un'importante differenza fra i Paesi d'Oltralpe e l'Italia, ovvero tra regioni a
«feudo franco» e regioni a «feudo longobardo».
Mentre
il feudo longobardo era divisibile tra i figli, quello franco non lo era e
passava per intero al primogenito. Così, nelle aree a feudo franco, dove
solo il primogenito aveva diritto all'eredità, si formò una classe
sempre più numerosa di «cadetti», i figli esclusi
dall'eredità. Costoro, non essendo titolari di benefici, non erano
neppure tenuti a giurare fedeltà a un signore, e, pur appartenendo
all'aristocrazia feudale, di cui condividevano valori e abitudini di vita, erano
estranei alle due fondamentali istituzioni del feudalesimo: il beneficio,
appunto, e il vassallaggio.
Per questa loro ambigua collocazione, i cadetti
costituirono in molti Paesi la principale base di reclutamento della Cavalleria,
un'istituzione la cui principale funzione sociale fu quella di riassorbire
nell'ordine feudale gruppi tendenzialmente estranei ad esso e perciò
pericolosamente fuori controllo. In effetti, almeno in principio, l'azione di
questi cadetti ebbe caratteri tutt'altro che «cavallereschi» e
presentò piuttosto aspetti di violenza e di sopraffazione; ne sono
testimonianze anche le prime Chansons de geste, i cui protagonisti, insofferenti
ad ogni freno politico e morale, si macchiano spesso di inaudite
atrocità. Era il momento in cui i cadetti, emarginati dalla gerarchia
feudale e non ancora disciplinati in un ordine istituzionale, ricercavano una
propria fisionomia nell'avventura e nel gesto clamoroso: una turbolenza che era
possibile grazie anche alle coperture di cui godevano i cadetti, che erano pur
sempre membri della classe dominante.
Diversa era la situazione in Italia,
dove, non essendovi la regola della primogenitura, non esisteva neppure una
classe di cadetti. La divisibilità dei feudi, però, favoriva la
frantumazione della proprietà e l'impoverimento di una parte della
nobiltà. Il ruolo che Oltralpe fu esercitato dai cadetti, in Italia fu
svolto dalla cosiddetta «piccola nobiltà», cioè
dall'insieme di quei vassalli minori che, pur integrati nel sistema feudale, si
distinguevano nettamente dall'alta nobiltà titolata (quella dei marchesi,
dei conti, dei grandi feudatari imperiali) che godeva di prerogative assai
più estese e di molto maggiore prestigio. La lotta fra piccola e grande
nobiltà è un dato storico di grande rilievo: la stessa nascita dei
comuni italiani, come vedremo, va collegata, almeno in parte, all'azione della
bassa nobiltà.
La classe dei cadetti e la piccola nobiltà
operavano l'una dall'esterno e l'altra dall'interno delle strutture feudali e
per un certo tratto ebbero finalità e caratteri divergenti. Alla fine
però si trovarono in una mentalità, in una tradizione, in un
complesso di regole e di aspirazioni comuni: quelli della Cavalleria. Il
processo non fu né rapido né pacifico: fra l'acquisizione di una
certa coscienza di classe da parte dei cadetti e dei nobili minori, e il loro
confluire nella Cavalleria propriamente detta, corse diverso tempo (all'incirca
due secoli, dal IX all'XI secolo).
Se la Cavalleria diventò una
delle componenti essenziali del feudalesimo, non si identificò mai del
tutto con esso. In rapporto al feudalesimo, la Cavalleria presentava non pochi
elementi di distinzione: era un'istituzione in teoria aperta a tutti (mentre il
feudalesimo si fondava su una rigida chiusura gerarchica); era dotata di proprie
norme (il codice cavalleresco); era svincolata dal sistema della dipendenza
personale su cui si reggeva ogni organismo politico feudale (il cavaliere non
era tenuto ad alcun giuramento di fedeltà); era aperta, come vedremo,
agli influssi dei princìpi cristiani e pronta a porsi al servizio della
Chiesa (mentre il cardine giuridico del feudalesimo era la persona
dell'imperatore); era destinata, infine, a sopravvivere anche dopo l'età
feudale propriamente detta.
LA CAVALLERIA, LA CORTE E LA CHIESA
Un ruolo decisivo nella nascita della
Cavalleria va riconosciuto alla Chiesa romana, sempre pronta ad appropriarsi
degli spazi sociali «neutri» per indirizzarli, con la forza del suo
messaggio, ai fini suoi propri. L'opera della Chiesa fu diretta innanzi tutto a
contenere la violenza delle prime generazioni di cadetti: attraverso l'ideologia
cristiana si crearono le basi dell'etica cavalleresca. Il Cristianesimo fu di
fatto l'elemento di coesione del multiforme mondo dei cavalieri medievali. Esso
rappresentò anche (insieme alla componente feudale) la nota distintiva
della Cavalleria medievale nei confronti della Cavalleria antica.
Il
cavaliere medievale era sì un nobile, un miles (ossia, in latino, un
soldato), un paladino, ma al tempo stesso era il combattente per la fede, il
protettore delle vedove e degli orfani, il difensore dei deboli, l'eroe delle
«giuste cause». Egli doveva sottostare ad una rigida educazione che,
per quanto fondamentalmente militare, laica e mondana, lo preparava alla difesa
della religione. Certo, l'educazione cavalleresca è stata, fino al
diffondersi delle università e delle prime scuole comunali e private,
l'unica forma di educazione propriamente «laica» del Medio Evo: laica,
però, solo perché gestita da un settore laico della società
(l'ambiente militare-nobiliare); non completamente laica, tuttavia, per i suoi
contenuti, che erano intrisi di ideali religiosi.
Il luogo di questa
educazione era essenzialmente il castello. Fino all'età di 7 anni circa
il futuro cavaliere restava in famiglia, dove imparava molto presto a cavalcare
e passava il suo tempo fra giochi di abilità ed esercizi fisici; quindi
veniva mandato a corte, dove aveva luogo la sua vera e propria formazione. Fra i
7 e i 14 anni aveva la qualifica di «paggio», dai 14 ai 21 quella di
«scudiere»: in tutto questo periodo pagava (per così dire) la
propria educazione ed il proprio mantenimento a corte servendo il signore che lo
ospitava, seguendolo ovunque, provvedendo a tutte le sue necessità. A 21
anni infine (ma talora anche prima) era consacrato «cavaliere», pronto
a dedicare «la sua anima a Dio, la sua vita al Re, il suo cuore alla Dama,
il suo onore a se stesso». Questa era la sua etichetta morale, anche se la
storia ce lo mostra di solito in termini assai meno lusinghieri.
Il
cavaliere doveva essere preparato all'uso delle armi, all'esercizio del
coraggio, allo sprezzo della morte. Ma doveva essere educato anche al rispetto
del codice di «cortesia», e doveva prendere dimestichezza con la
letteratura, la musica, la poesia. Sue caratteristiche erano, appunto, la
«cortesia» e l'«onore», il culto della donna e
dell'avventura, ma anche l'obbedienza alla morale cristiana e ai richiami di
Roma: il cavaliere doveva all'occorrenza farsi crociato, era anzi il crociato
per eccellenza.
L'azione di assorbimento che la Chiesa pose in atto nei
riguardi della Cavalleria, si può dire conclusa nel secolo XI. Proprio
alla fine dell'XI secolo si realizzò la prima crociata: una grande
rassegna della Cavalleria occidentale al servizio della fede e la prima verifica
operativa del binomio Chiesa-Cavalleria. Uno dei più grandi santi di
quest'epoca, Bernardo da Chiaravalle (1090-1153), monaco cistercense e dottore
della Chiesa, scrisse su questo tema un trattato, De laude novae militiae,
dedicato all'ordine dei Templari, dove l'ideale della guerra santa era
contrapposto esplicitamente alla concezione che interpretava la professione
cavalleresca come professione essenzialmente mondana:
I soldati di
Cristo - scriveva tra l'altro San Bernardo - combattono sicuri le guerre del
loro Signore e non temono né il peccato se uccidono il nemico, né
il pericolo se muoiono essi stessi, giacché la morte vien data e ricevuta
in nome di Cristo e non v'è in ciò delitto, ma anzi merito di
grandissima gloria.
Le crociate, però, dopo un breve successo
iniziale, fallirono i loro obiettivi religiosi. Riuscirono perfettamente,
invece, sul terreno politico ed economico. Il fatto è che, per quanto
permeata dall'ideologia cristiana, la Cavalleria non si riduceva a questa,
così come non si riduceva ad una semplice componente del mondo feudale.
Come molte istituzioni del Medio Evo, anch'essa presentava una congenita
ambiguità: era una delle tante proposte di conciliazione fra cielo e
terra, fra Stato e chiesa.
Feudalesimo e Chiesa, poli essenziali della
Cavalleria, a lungo andare furono anche le ragioni della sua decadenza. Il venir
meno dell'idea di crociata segnò il declino della componente religiosa
della Cavalleria, mentre la progressiva evoluzione della Cavalleria nel senso di
una casta nobiliare chiusa finì per toglierle autonomia rispetto
all'aristocrazia feudale. Nel secolo XII ci fu un momento di rifioritura della
Cavalleria che per un verso contribuiva alla nascita del comune e per un altro
sembrava voler salvaguardare i suoi attributi più autentici vietando
l'ereditarietà del titolo di cavaliere. Ma già nel Duecento
iniziò un lungo processo di riflusso. Mentre in origine era aperta a
tutti, la Cavalleria diventò accessibile soltanto ai nobili e finì
per riaccostarsi e confondersi con l'elemento signorile-feudale, di cui divenne
una sorta di controfigura.
ELOGIO DELLA GUERRA
Uno dei più significativi rappresentanti del
mondo feudale e cavalleresco fu il trovatore provenzale Bertran de Born (1140
ca. - 1215 ca.) signore del castello di Hautefort nel vescovato di
Périgord, in Aquitania. Dante lo ricorda nel Convivio per la sua
liberalità (ossia per la larghezza con cui scialacquava quel tanto o quel
poco che gli capitava di avere), nel De Vulgari Eloquentia quale «cantore
di armi» e nell'Inferno (XXVIII, vv. 124 sgg.) quale fomentatore di
discordie. In quest'ultimo caso Dante si riferiva alla parte avuta da Bertran de
Born nella ribellione di Enrico Corto Mantello e Riccardo Cuor di Leone, figli
del Re d'Inghilterra, Enrico II Plantageneto, contro il loro padre. Ma Bertran
era continuamente coinvolto in guerre private e contese feudali e non
perché fosse un tipo litigioso, ma perché considerava la
litigiosità un valore di vita, il modo d'essere proprio della
nobiltà feudale. Gran parte della produzione poetica di Bertran de Born
è dedicata all'esaltazione della guerra e del saccheggio, attività
belle e buone in sé, indipendentemente dalle loro
motivazioni:
Molto mi piace la lieta stagione di primavera
che
fa spuntar foglie e fiori
[...]
E mi piace quando gli
scorridori
mettono in fuga le genti con ogni lor roba
[...]
E
vedo i morti che attraverso il petto
han tronconi di lancia con i
pennoncelli.
Baroni date a pegno
castelli borgate e
città
piuttosto che cessare di guerreggiarvi l'un
l'altro.
Ma l'aristocrazia feudale amava Dio quasi quanto la guerra e
anche in questo Bertran de Born era un perfetto esemplare della sua classe: a un
certo punto si fece monaco entrando nell'ordine riformato dei Cistercensi (lo
stesso di San Bernardo di Chiaravalle), e concluse piamente nell'abbazia di
Dalon un'esistenza omicida
IL MASSACRO DEGLI INFEDELI
Gli Arabi nella loro espansione avevano
conquistato numerosi territori abitati da popolazioni cristiane, in Asia Minore,
lungo la costa africana e anche in Europa (Spagna, Sicilia), ma la loro politica
nei confronti di quanti non si convertivano all'Islam fu sempre relativamente
tollerante e non vi furono mai consistenti episodi di ribellione da parte delle
popolazioni cristiane. Per questo verso la situazione non cambiò
sensibilmente quando alla guida del mondo islamico i Turchi si sostituirono agli
Arabi.
Furono forze esterne, il Papato, la feudalità europea, i
comuni e le repubbliche marinare d'Italia che, perseguendo i propri particolari
interessi politici ed economici, alimentarono la convinzione che fosse
necessario e doveroso «liberare» i cristiani caduti sotto il dominio
islamico. Ma naturalmente fu soprattutto la Chiesa di Roma, che aspirava a
consolidare la propria autorità nell'Europa occidentale e a estenderla in
nuove regioni, che propagandò con tutti i mezzi a sua disposizione l'idea
della crociata, una sorta di pellegrinaggio armato, nel quale la più
eccitante opera di misericordia era lo sterminio degli infedeli e, naturalmente,
il saccheggio dei loro beni.
Il papa Urbano II al concilio di Clermont
Ferrand (1095), invitando gli Europei alla crociata non mancò di
sottolineare che l'impresa poteva rivelarsi un buon affare:
...
Incamminatevi verso il Santo Sepolcro, strappate quella terra a quella gente
nefanda fatela vostra! Quella terra fu destinata da Dio ai figli d'Israele; vi
scorrono, come dice la Scrittura, fiumi di latte e miele [...], è feconda
sovra ogni altra, quasi un secondo paradiso di delizia...
I primi a
partire verso Gerusalemme, spinti dalla predicazione di un monaco, Pietro
l'Eremita, e sotto la guida di Gualtiero Senza Averi (un epiteto assai
indicativo), furono schiere di poveracci e contadini, che giunti in gran
disordine in Asia Minore, dopo aver compiuto lungo la strada ogni sorta di
violenze, furono a loro volta facilmente fatti a pezzi dai musulmani. I
superstiti si unirono all'esercito di Goffredo di Buglione, capo di quella che
viene considerata la prima crociata vera e propria. Questa impresa, che vide una
partecipazione massiccia della feudalità francese, renana e dell'Italia
meridionale era molto meglio preparata della sgangherata spedizione di Pietro
l'Eremita. Ma già all'inizio, vale a dire all'arrivo delle truppe
crociate a Costantinopoli. si rivelò il contrasto di fondo (destinato a
riemergere nel corso delle successive spedizioni) tra gli obiettivi dei crociati
e quelli dell'imperatore bizantino, che pure aveva in una certa misura
sollecitato e appoggiato l'iniziativa. L'imperatore bizantino sperava di trovare
nei cristiani occidentali un qualche aiuto contro l'avanzata turca e per la
riconquista dei territori perduti. I crociati, invece, piccoli e grandi
feudatari o semplici cavalieri, erano partiti dall'Europa con la speranza di
arricchirsi e di ottenere per sovrammercato la salvezza dell'anima. Non avevano
dunque alcuna intenzione di conquistare terre per conto d'altri. La presa di
Gerusalemme, avvenuta il 15 luglio 1099, si risolse, come sempre o quasi sempre
in questi casi, in un macello. Nei territori conquistati i crociati fondarono
diversi regni a carattere nettamente feudale: in essi le città mercantili
e marinare d'Italia, Genova, Pisa, Venezia, senza le cui navi le spedizioni
crociate non avrebbero mai potuto realizzarsi, ebbero in concessione scali e
fondachi e ottennero importanti privilegi commerciali, tanto che si dice
comunemente che furono loro le vere beneficiarie della santa furia crociata.
Quanto ai nuovi regni fondati in Terrasanta, dovettero presto sostenere il
contrattacco dei Turchi. Una seconda crociata fu predicata in loro aiuto da San
Bernardo, ma ebbe scarso successo. Salah-ed-Din, meglio noto da noi come il
Saladino, dopo essersi costruito un impero in Egitto e Mesopotamia,
riconquistò Gerusalemme all'Islam nel 1187 e resistette ad una nuova
crociata, la terza, che gli fu lanciata contro dall'Europa cristiana e a cui
vollero prendere parte in una gran parata i re d'Inghilterra e di Francia e
l'imperatore di Germania.
Il termine «crociata» oltre che per le
spedizioni in Terra Santa è stato usato anche per le guerre che i regni
cristiani di Spagna conducevano contro gli Arabi (la Reconquista) e per le
campagne di sterminio contro gli eretici all'interno dell'Europa, come quella
contro gli Albigesi del 1208-1213. Tra le crociate vere e proprie la quarta
testimonia come (pur restando ben vivo in Europa il fanatismo religioso e
l'ideale della crociata come pellegrinaggio armato e movimento di
«liberazione») nell'organizzazione concreta di queste imprese
risultassero ormai determinanti altri fattori: gli interessi economici dei
mercanti italiani e il gusto della guerra e della conquista di cavalieri e
nobili feudatari. Completamente controllata dai Veneziani, la quarta crociata
non finse neppure di volgersi contro gli infedeli, ma si rovesciò a
tradimento su Costantinopoli, dove il vecchio Impero Bizantino venne abbattuto e
sostituito con un Impero Latino d'Oriente che era di fatto nelle mani della
Repubblica di Venezia (e, in parte, di quella di Genova).
Partenza di Goffredo di Buglione per la prima Crociata
GLI ARABI E L'ISLAM
Intorno al Mille le potenze musulmane
estendevano il proprio dominio dalla Spagna all'India, dal Marocco all'Asia
Centrale. L'area d'influenza della religione islamica e del commercio arabo era
ancora più vasta. Il Mar Caspio, il Golfo Persico, il Mar Rosso, l'Oceano
Indiano erano mari arabi. Sin dal IX secolo i marinai arabi si erano spinti a
Canton, nella Cina meridionale. Ancor prima era iniziata la penetrazione araba
nell'Africa nera a partire dalle città mercantili della costa orientale.
Nello stesso tempo la fede islamica si era diffusa nel Sudan seguendo il cammino
delle carovane che attraversavano il Sahara. L'Europa stessa derivò dalla
cultura araba buona parte del suo patrimonio tecnico e quasi tutto il suo
patrimonio scientifico: trigonometria, algebra, geografia, astronomia, ottica,
alchimia, medicina furono per lungo tempo discipline prevalentemente o
esclusivamente arabe. Per merito della civiltà islamica l'unità
puramente geografica del Vecchio Continente era diventata, entro certi limiti,
un'unità anche culturale.
Fino all'XI secolo la potenza militare e
la fecondità culturale erano cresciute insieme. Da quel momento,
però, lo sviluppo della civiltà araba parve arrestarsi. Nella loro
espansione gli Arabi erano venuti in contatto, e spesso in conflitto, con popoli
diversi: i Berberi del Nord Africa, i Neri del Sudan e soprattutto i Turchi, che
provenivano dalle steppe e dai deserti dell'Asia Centrale. Convertiti alla
religione musulmana questi popoli erano entrati a far parte del mondo islamico,
ma avevano posto fine al predominio arabo.
Sarebbe toccato ai Turchi
riprendere l'espansione dell'Islam. Originari del Khorasan e della Corasmia, i
Turchi Selgiuchidi (o Selgiucidi, da Selgiuq, il capo che per primo si
convertì alla religione musulmana) erano penetrati nell'Iran attorno al
1040. Nel 1055 erano giunti a Bagdad e il loro condottiero, Toghrul, aveva
ricevuto dal califfo il titolo di Sultano e di Re dell'Est e dell'Ovest. I primi
successori di Toghrul, approfittando dei contrasti esistenti tra i principi
locali, riuscirono ad annettere in breve tempo tutta l'Asia musulmana, ad
eccezione dell'estrema Arabia, e a ridurre quasi interamente sotto il loro
controllo la metà orientale dell'Impero Islamico. Continuarono poi gli
attacchi e le rapide razzie contro i territori dell'Impero d'Oriente, fino al
1071, quando l'esercito bizantino fu clamorosamente sconfitto.
In pochi
anni quasi tutta l'Asia Minore fu occupata e conquistata. Nei secoli seguenti
l'espansione turca continuò sotto le dinastie dei Quaramanidi a Sud e
degli Ottomani a Nord-Ovest.
Tuttavia proprio nel settore mediterraneo
l'Islam dovette subire tra l'XI e il XIII secolo il contrattacco della
cristianità europea: il dominio arabo del mare cominciò ad essere
seriamente contrastato dai marinai di Amalfi, di Pisa, di Genova, di Venezia,
che fino a quel momento avevano osato a mala pena mettere le loro navi in mare;
in Spagna continuava, tra successi e sconfitte, la Reconquista cristiana; la
Sicilia, che era il cuore della potenza musulmana nel Mediterraneo, dovette
essere abbandonata ai Normanni; infine le crociate portarono la guerra sulla
stessa sponda asiatica del Mediterraneo e consentirono alle Repubbliche marinare
d'Italia di assumere il controllo del mare. Le conquiste territoriali dei
crociati in Terra Santa non furono durature, ma il dominio del mare restò
saldamente nelle mani degli Europei.
Non è un caso, forse, che
proprio in questo periodo anche la cultura islamica sia entrata in crisi. Per
diversi secoli quella islamica continuò ad essere una civiltà
splendida, ma dopo aver rimesso in circolazione la grande eredità
culturale della Grecia antica, parve incapace di creare qualcosa di nuovo:
filosofi e scienziati si limitavano a ripetere e a commentare l'opera dei loro
predecessori. Qualche secolo più tardi quando l'Europa, liberatasi almeno
in parte dalle pastoie del fanatismo religioso, sarebbe stata in grado di
dotarsi di una tecnica evoluta e di una scienza capace di costanti progressi,
questa incapacità del mondo islamico a mettersi in discussione e a
rinnovare il proprio bagaglio culturale, si sarebbe rivelata un grave, e forse
decisivo, fattore di inferiorità.
CITTÀ E MONDO FEUDALE
Uno delle componenti più importanti
della rinascita europea a partire dall'XI secolo fu il rifiorire della vita
cittadina e la nascita degli ordinamenti comunali. I comuni erano nuove forme di
potere locale, prevalentemente ma non esclusivamente urbane (c'erano anche,
infatti, comuni rurali), fondate sui principi dell'associazione e
dell'autogoverno: rispetto all'autorità monarchica (regia o imperiale) e
a quella dei grandi feudatari che ne erano i rappresentanti nelle province, i
comuni si ritagliarono ampi spazi di autonomia, facendo leva proprio sui
contrasti che opponevano i sovrani ai loro indisciplinati vassalli, desiderosi i
primi di riprendersi i poteri concessi e gli altri di sottrarsi, per quanto
possibile, agli obblighi della dipendenza.
La rinascita delle città
fu un processo graduale, che non modificò all'improvviso le condizioni di
vita della gente; i cambiamenti, però, furono significativi e nettamente
percepibili nell'arco di qualche generazione. La quasi totalità della
popolazione europea continuava a vivere nelle campagne e quasi tutta la
ricchezza disponibile continuò a essere prodotta dai contadini, ma
artigiani e mercanti presero a specializzare e a estendere l'area delle proprie
attività, a concentrarsi nelle città, a condizionare dalle
città, attraverso il controllo dei mercati, i modi di vita e di lavoro
delle popolazioni rurali. Lo sviluppo delle attività manifatturiere e
commerciali si risolveva in un vantaggio per tutti, a cominciare dai signori
feudali che erano i tradizionali padroni delle campagne europee. Esso
però richiedeva l'esistenza di due condizioni, che il sistema feudale
sembrava incapace di assicurare: una certa libertà di iniziativa e di
movimento e una almeno relativa pace. Questo bisogno di libertà e di pace
fu tra i moventi principali della nascita dei comuni.
Per quanto riguarda
la libertà, il sistema feudale ne era la più aperta negazione. Per
poter operare, dunque, mercanti e artigiani dovettero ottenere una serie di
privilegi, che li sottraevano alla comune condizione di dipendenza; in questo
modo le città che ne ospitavano le attività, vennero a costituire
delle isole di libertà in un oceano di servitù. Talvolta erano gli
stessi sovrani o i grandi feudatari o i signori ecclesiastici (vescovi e abati)
che offrivano questi privilegi e si facevano promotori della fondazione di nuovi
insediamenti urbani ripromettendosi grossi vantaggi economici e politici
dall'esistenza nelle proprie giurisdizioni di mercati e di centri di
attività manifatturiere. Altre volte, invece, gli abitanti delle
città e dei borghi (artigiani e mercanti, ma anche piccoli nobili
inurbati e, nelle sedi episcopali, ecclesiastici e laici dipendenti dal vescovo)
dovettero conquistare e poi difendere con le armi le proprie
libertà.
Quanto alla pace, il sistema feudale era riuscito a
organizzare un'efficiente difesa dell'Europa dagli attacchi esterni, ma non era
mai riuscito a eliminare il disordine interno. La classe feudale era una casta
militare e la guerra era la sua ragione di vita. I feudatari grandi e piccoli
erano perennemente in lotta fra di loro e con i propri signori. I nobili
impoveriti, poi, che avevano poche terre e pochi contadini alle loro dipendenze
(o che non ne avevano affatto, avendo finito per perdere le une e gli altri nel
dispendioso gioco della guerra), se non trovavano da impiegare in qualche modo
le proprie capacità militari (al servizio di qualche gran signore,
oppure, inurbandosi, al servizio dei nascenti comuni) non esitavano a
trasformarsi in predoni da strada e a procurarsi le risorse di cui avevano
bisogno assaltando e taglieggiando mercanti di passaggio e contadini.
Al
disordine feudale si tentò, soprattutto da parte della Chiesa, di trovare
qualche rimedio o imponendo in certe zone e in certi periodi dell'anno tregue
obbligatorie per tutti (le cosiddette «paci di Dio») o, come nel caso
della Cavalleria, sottoponendo l'esercizio delle armi a regole precise. Anche le
crociate, ossia le spedizioni militari bandite e organizzate dal papa per la
liberazione dei Luoghi Santi erano un modo per scaricare fuori d'Europa la
violenza e l'ardore guerresco della classe feudale. In un'età in cui non
era infrequente che i nobili guerrieri che dominavano l'Europa temessero
più una maledizione che un colpo di spada e tenessero più alla
promessa della salvezza nell'altro mondo che alla concessione di un feudo in
questo, la Chiesa poteva fare molto per mettere un po' d'ordine, e nel complesso
fece quel che poteva.
Ma furono soprattutto i nuovi ceti urbani (quelli
che, con un termine un po' ambiguo possiamo già chiamare la
«borghesia») che si assunsero il compito più gravoso nella
repressione del disordine, organizzandosi in libere associazioni, da cui in
molti casi sarebbero poi nati i comuni. Compito principalissimo di queste
associazioni era appunto la sorveglianza sulla tranquillità delle
campagne circostanti (il contado) e sulla sicurezza delle strade. Con le buone o
con le cattive molti nobili furono indotti a lasciare i loro castelli e a
stabilirsi entro le mura urbane; sottomettendosi alle magistrature cittadine
erano accolti a pieno titolo nel ceto dirigente del comune. Tra la borghesia
cittadina e l'aristocrazia feudale, c'era (si potrebbe dire) un naturale
antagonismo. Non bisogna però immaginare questo antagonismo come
un'ostilità generale e insanabile. Il fatto che molte città
fossero sorte proprio per iniziativa e con la protezione dei signori feudali e
che molti nobili non esitassero a mescolarsi ai borghesi nel governo del comune
sta a indicare che molto spesso gli interessi degli uni e degli altri
coincidevano.
In effetti, borghesia e aristocrazia non potevano fare a meno
l'una dell'altra. Feudatari grandi e piccoli erano i migliori clienti
dell'artigianato cittadino ed era con loro che i mercanti combinavano i migliori
affari. Solo i signori feudali, del resto, che erano padroni delle campagne,
disponevano di quelle eccedenze agricole che erano necessarie ad alimentare il
consumo delle città. Certo, i signori feudali, tutti presi dalle loro
occupazioni guerresche e sensibili solo ai valori cavallereschi e cortigiani del
coraggio, dell'onore, della fedeltà al capo, ostentavano disprezzo per i
borghesi (da cui si sentivano derubati e che volentieri derubavano, quando gli
capitava) e specialmente per la loro dannata fame d'oro.
Ma per trasformare
in denaro sonante le ricchezze che riuscivano a spremere con la forza dai propri
contadini, questi orgogliosi aristocratici erano costretti a ricorrere proprio
ai servizi degli spregiati borghesi.
Era a loro che dovevano vendere i
prodotti della terra; era da loro che dovevano acquistare i costosi manufatti
(armi e strumenti in metallo, suppellettili di lusso, tessuti, ecc.)
indispensabili alla vita di corte e alla guerra; ed era bussando alla loro porta
che, all'occorrenza, potevano sperare di trovare prontamente in prestito quei
quattrini di cui avevano grandissimo e crescente bisogno.
Così,
almeno finché il sistema feudale riuscì a garantire la graduale
espansione della produzione agricola, sulla quale si fondava in ultima analisi
la prosperità di tutti, i ceti borghesi non ebbero difficoltà ad
integrarvisi. Anche l'istituzione comunale, ossia l'organizzazione politica
delle città, si inserì senza eccessivi problemi nelle strutture
dello Stato feudale: essa semplicemente si affiancò alle vecchie signorie
feudali, delle quali rivendicò tutte le prerogative e tutte le
immunità, come la facoltà di amministrare la giustizia, di imporre
e riscuotere tasse, di organizzare eserciti, di coniare
monete.
CASTELLO, BORGO, CONTADO
Il castello medievale è un
edificio-fortezza, cinto di mura e solitamente costruito su un'altura, dotato di
una o più torri, che serviva per dimora dei signori e intorno al quale,
per ovvie ragioni di difesa, tendeva a raccogliersi la popolazione rurale. La
parola «castello» è un diminutivo del latino castrum che vuol
dire fortezza, spazio chiuso e fortificato e che nel Medio Evo ha finito per
indicare un abitato difeso da mura centro di una giurisdizione territoriale,
distinto però dalla città vera e propria: ancora oggi la parola
vive in numerosi toponimi (Castrovillari, Montalto di Castro, ecc.).
«Città» viene dal latino civitas, che indica l'insieme
degli abitanti di una città, ossia la collettività dei cittadini,
diversamente da urbs, che vuol dire sempre città, ma intesa come semplice
agglomerato fisico di edifici e di mura. Civitas, insomma, era l'equivalente del
greco polis, la città-stato, la città in quanto organizzazione
giuridica e politica dei cittadini.
Anche «borgo» vuol dire
città, ma in un significato alquanto diverso. La parola viene dal latino
medievale burgus, corrispondente al germanico burgs, che voleva dire
originariamente fortificazione, castello, luogo cinto da mura, più o meno
come il latino castrum. Nel Medio Evo, quando qualsiasi grosso insediamento era
protetto da mura, il termine divenne sinonimo di città.
«Borghese» (latino medievale: burgensis; francese: bourgeois)
è, dunque, nell'accezione più elementare (torneremo più
avanti sugli altri significati della parola), l'abitante del borgo, ossia il
cittadino, in contrapposizione al «villano» (l'abitante delle villae o
villaggi che erano le unità produttive e abitative delle campagne), al
«rustico» (l'abitante della campagna, dal latino rus = campagna), o al
«contadino» (l'abitante del contado).
«Contado» indica
genericamente la campagna che circonda una città; in senso più
specifico indica il territorio su cui si esercitava il dominio di un comune
medievale. Il termine viene dal provenzale comtat, che a sua volta deriva dal
latino medievale comitatus, che significava «territorio dipendente da un
conte». Il conte (in latino: comes) nel tardo Impero Romano era il
funzionario che nelle diverse città rappresentava il potere centrale;
nell'Impero Franco era invece, come sappiamo, il governatore di una
provincia.
I COMUNI ITALIANI
L'esperienza comunale non ebbe le stesse
caratteristiche in tutti i Paesi. Una prima grande distinzione va fatta, per
esempio, fra i comuni italiani (specialmente dell'Italia centro-settentrionale)
e quelli d'Oltralpe. In Francia, in Belgio, in Germania, in Inghilterra il
comune aveva di solito una dimensione esclusivamente cittadina: s'identificava,
cioè, con organismi chiusi entro le mura e chiaramente separati
dall'ambiente rurale circostante. Le mura che circondavano l'abitato cittadino
erano l'espressione visibile di questa separazione fra città e campagna,
a cui corrispondeva una netta contrapposizione fra la nascente società
«borghese» e la nobiltà feudale. In Italia invece, dove non si
era mai perso completamente il ricordo della città romana, che era
fortemente integrata nella campagna circostante, il comune mantenne sempre
stretti contatti con il contado su cui si sforzò di estendere la propria
autorità alleandosi o combattendo di volta in volta con i signori
feudali, ma in ogni caso cercando di assorbirli.
Così, mentre fuori
d'Italia il comune fu espressione pressoché esclusiva dei ceti
«borghesi», in Italia fu principalmente un polo di attrazione per
componenti sociali disparate (in primo luogo l'elemento nobilare-feudale), che
realizzavano nel governo delle città un'originale forma di convivenza.
Dal canto suo, il ceto signorile italiano, pur mantenendo solide basi nelle
campagne, non trascurò mai i contatti con le città, dove molti
suoi esponenti risiedevano e svolgevano funzioni di governo. Nel successo dei
comuni italiani, poi, a differenza di quelli d'Oltralpe, accanto alle forze
mercantili, ebbero un grande peso proprio i «signori», vescovi e
feudatari: nato come associazione giurata puramente volontaria, che nei rapporti
con il potere costituito (ossia con l'autorità feudale e, attraverso di
essa, con l'autorità imperiale) conservava una fisionomia incerta, a
metà tra il pubblico e il privato era naturale che il comune cercasse una
legittimazione appoggiandosi su elementi, come appunto i vescovi e i feudatari,
che nel sistema politico dell'Impero avevano una funzione pubblica
riconosciuta.
Anche per questo, i comuni italiani ebbero agli inizi una
forte impronta aristocratica. I consoli, che erano i massimi organi dirigenti
della nuova associazione, non erano espressione della componente popolare, ma
dei ceti socialmente ed economicamente più elevati della città. I
«capitani» (dal latino caput = «capo»), i
«valvassori», i «visconti» (alla lettera, feudatari che
facevano le veci del conte) costituivano, insieme con i più cospicui
rappresentanti dell'ambiente finanziario-mercantile, una ristretta classe di
governo, una vera e propria «oligarchia», ben decisa a tenere tutti
gli altri lontani dal potere.
All'interno di questa ristretta classe, per
altro, non mancavano contrasti. Per tutti, infatti, l'esercizio del potere e il
controllo dell'organizzazione comunale non aveva altro senso che l'affermazione
di interessi particolari, personali o familiari o di consorteria. Questi
contrasti e l'incapacità dell'originario gruppo dirigente del comune a
esprimere la crescente complessità della vita cittadina (dove avevano
preso a pullulare associazioni d'ogni genere, professionali, di partito,
rionali, ecc., che aspiravano ad avere parte nella gestione del potere)
portarono, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, a un cambio di
regime. I consoli furono sostituiti da un podestà, che era di norma un
forestiero, estraneo alle fazioni cittadine e perciò in grado (almeno in
teoria) di assicurare una maggiore imparzialità nell'amministrazione del
comune. Il podestà era affiancato da una serie di consigli e di
magistrature, dove erano largamente rappresentate le nuove forze emergenti nella
società, escluse invece dai vecchi organismi del comune consolare. Furono
appunto questi consigli e queste magistrature ad ereditare gran parte del potere
un tempo esercitato dai consoli.
Con l'avvento del regime podestarile si
realizzò, dunque, una sorta di compromesso tra vecchi e nuovi gruppi di
potere: i primi non furono (almeno di norma) scacciati dal governo del comune,
ma le nuove componenti della vita comunale salirono, dove più dove meno,
alla ribalta. Questo ricambio dei gruppi dirigenti fu particolarmente visibile
nei cosiddetti «comuni popolari», nei quali le organizzazioni
territoriali e le associazioni professionali o artigiane riuscirono a far
assumere ai propri capi (Anziani, Priori, Capitani del Popolo, ecc.) vere e
proprie funzioni di governo.
Il regime che si suole definire
«popolare» fu il più diffuso e, per molti aspetti, il
più significativo dell'età podestarile. Sarebbe però un
errore interpretarlo come un fenomeno di «democratizzazione» della
vita comunale. Certo, il comune del Popolo assicurava una più ampia
partecipazione al governo della cosa pubblica. Anche in esso, però, non
si ebbe mai (o quasi mai) un'effettiva partecipazione di tutto il popolo. Anche
il comune «popolare» era controllato da un'oligarchia: non si trattava
più dell'antica aristocrazia di origine feudale, giacché
comprendeva larghi settori dei ceti più propriamente
«borghesi», legati alle attività manifatturiere, al commercio,
alla finanza (il mondo degli affari), ma si trattava pur sempre di un gruppo
ristretto, che non si confondeva e non aveva nessuna intenzione di essere
confuso con le masse popolari.
L'esperienza dei comuni, e di quelli
italiani in particolare, è stata spesso sopravvalutata o caricata di
significati che non aveva affatto. Così, ad esempio, il comune medievale
è stato interpretato da taluno come espressione della rivolta
«democratico-borghese» contro il dominio dell'aristocrazia feudale.
Come abbiamo visto, però, la contrapposizione tra borghesia e
aristocrazia feudale, se pure può valere, in termini molto generali, come
grande semplificazione, nei casi concreti incontra infinite eccezioni. Quanto
poi alla «democrazia» comunale, occorre avvertire che termini come
questo, quando vengono applicati al Medio Evo acquistano un senso tutto
particolare e molto diverso dall'attuale; ma anche in questo significato
particolare, non erano poi molti i comuni medievali a cui si possa davvero
attribuire l'appellativo «democratico».
In Italia, poi, il mito
dell'età comunale è stato alimentato nel secolo scorso dal
desiderio di trovare nel passato anticipazioni delle aspirazioni risorgimentali
alla libertà e all'indipendenza nazionale. Sono stati così
esaltati, fino al loro totale fraintendimento, singoli episodi o particolari
aspetti dell'esperienza comunale italiana e la lunga lotta di alcuni comuni
dell'Italia settentrionale in difesa della propria autonomia contro
l'autorità imperiale germanica è stata vista come la
manifestazione di un presunto «spirito nazionale», ed anzi come la
prima esplicita affermazione della «libertà» italiana. Ma si
trattava di un'illusione ottica: come si avrà modo di vedere a suo luogo,
lo «spirito nazionale» è un'invenzione ottocentesca; quanto
alla libertà d'Italia, se ne è sempre fatto un gran parlare, ma
ogni volta in un significato diverso e mai o quasi mai nel senso che sarebbe
piaciuto agli uomini del nostro Risorgimento.
LA LEGA LOMBARDA
Gli episodi più noti della lunga lotta
sostenuta dai comuni italiani in difesa delle proprie libertà sono legati
alla Lega lombarda costituita nell'aprile del 1167 a Pontida e comprendente
numerose città del Nord Italia (Milano, Lodi, Como, Pavia, Bologna,
Parma, Piacenza, Verona, Padova, Venezia ecc.) con il patrocinio del papa
Alessandro III, nemico dichiarato dell'imperatore Federico I di Svevia detto il
Barbarossa. Federico I aveva già sconfitto più volte i suoi
avversari in Italia tra il 1154 e il 1162 e per dare un esempio ai suoi
recalcitranti sudditi aveva fatto radere al suolo le città di Crema e
Milano. La vendetta dei comuni italiani venne nel 1176, quando l'esercito della
Lega sconfisse a Legnano le truppe imperiali. Nella pace di Costanza del 1183
Federico Barbarossa dovette riconoscere le autonomie comunali; da parte loro,
però, i comuni riconobbero queste stesse autonomie come una concessione
imperiale, e cioè confermarono la propria dipendenza dal Sacro Romano
Impero. Rinnovata più volte verso la metà del XIII secolo la Lega
lombarda combatté e sconfisse ripetutamente anche il nipote di
Barbarossa, Federico II, con il quale di fatto tramontarono i sogni della casa
imperiale di Svevia di costruirsi un solido dominio anche in
Italia.
IMPERATORI E PAPI
Nei secoli più difficili per
l'Europa, tra il IX e il X secolo, l'Impero fondato da Carlo Magno non aveva
resistito all'attacco congiunto di Arabi, Ungari e Normanni, e al disordine
interno: l'autorità centrale, ridotta a poco più di un nome, aveva
lasciato che ogni regione provvedesse da sé, con i propri capi e con le
proprie risorse, a difendersi dalla minaccia delle invasioni e della fame. Ma
sul finire del X secolo era nato in Germania (allora divisa in Sassonia,
Turingia, Baviera, Svevia e Franconia) un nuovo potere imperiale che, come
quello carolingio, si richiamava idealmente all'autorità degli antichi
imperatori romani. Autori di questa seconda restaurazione imperiale furono i
sovrani della casa di Sassonia: Enrico, detto l'Uccellatore, suo figlio Ottone
I, il figlio di questi, Ottone II, e il figlio di Ottone II, Ottone
III.
Come già Carlo Magno, gli imperatori sassoni si guadagnarono il
titolo imperiale sconfiggendo i popoli ancora pagani (Slavi, Magiari, Danesi,
ecc.) che premevano sulla frontiera orientale d'Europa e convertendoli, con le
buone o con le cattive, al Cristianesimo. Come Carlo Magno, gli Ottoni
ricercarono ed ottennero l'appoggio determinante della Chiesa. E come Carlo
Magno cercarono un'intesa con l'Impero Bizantino anche per mezzo di matrimoni:
Ottone II, in questo più fortunato di Carlo, riuscì effettivamente
a sposare una principessa bizantina.
L'Impero Romano-Germanico (o, come
più esattamente si chiamava, il Sacro Romano Impero della Nazione
germanica) non aveva la stessa estensione dell'Impero Carolingio: si limitava
alla Germania e all'Italia centro-settentrionale. Per di più in Italia
gli imperatori dovettero lottare incessantemente e senza troppo successo per
imporre la propria autorità: contro di loro si levarono di volta in volta
re eletti dai grandi signori della penisola, comuni che rivendicavano la propria
autonomia e papi, che, contendendo agli imperatori il primato nella guida della
Cristianità occidentale, cercavano di crear loro tutti i fastidi
possibili e soprattutto cercavano di tenerli lontani da Roma.
Sensibilmente
più piccolo dell'Impero Carolingio, l'Impero Romano-Germanico, si
rivelò, però, più vitale e duraturo: a quella di Sassonia
sono successe via via altre case regnanti, ma il Sacro Romano Impero è
scomparso ufficialmente dalla scena politica dell'Europa solo nel 1806. Sebbene
controllassero effettivamente soltanto una porzione dell'Europa, gli imperatori
tedeschi pretendevano di esercitare un'autorità di carattere universale,
in forza della presunta eredità di Carlo Magno e, attraverso Carlo,
dell'antico Impero Romano. Gli altri sovrani d'Europa non ammettevano alcuna
ingerenza dell'imperatore nei propri domini, ma gli riconoscevano una certa
preminenza, sia pure meramente onorifica.
Anche il papa, come l'imperatore,
rivendicava un'autorità universale. Si trattava naturalmente di due
autorità diverse: politica e «temporale» (cioè relativa
alla vita terrena, che è soggetta a limiti di tempo) quella
dell'imperatore, religiosa e spirituale quella del papa. Al tempo di Costantino,
quando la Chiesa era stata riconosciuta ufficialmente e il Cristianesimo era
diventato la religione dominante (e poi l'unica ammessa nell'Impero), i vescovi,
compreso quello di Roma (ossia il papa), erano dei semplici funzionari imperiali
e toccava all'imperatore decidere sia in materia di disciplina ecclesiastica sia
in materia di fede. Con la scomparsa dell'autorità imperiale in Occidente
il papa aveva acquistato prestigio e aveva preso a esercitare una serie di
funzioni di comando anche sul terreno strettamente
politico-temporale.
Quando Carlo Magno volle restaurare l'autorità
imperiale il consenso del papa risultò un elemento decisivo per il
successo dell'operazione: ormai era impensabile che un potere politico a
carattere universale potesse costituirsi in Occidente senza la consacrazione
della Chiesa di Roma. Come si è già accennato, in fatto di
gerarchie i rapporti tra il papa e i sovrani carolingi restarono (forse
volutamente) mal definiti. C'era, però, qualche elemento che lasciava
supporre una certa preminenza dell'imperatore sul papa: dopo tutto, se il papa
aveva incoronato Carlo, Carlo aveva processato e giudicato il papa. Ludovico il
Pio, poi, figlio e successore di Carlo, aveva costretto il papa a giurargli
fedeltà.
Anche i nuovi imperatori germanici si erano atteggiati,
come Carlo Magno, a protettori e giudici della Chiesa. Nella vita della Chiesa
erano anzi intervenuti pesantemente, prendendo apertamente partito per le
correnti riformatrici che combattevano la corruzione del clero e volevano
restituire la Chiesa alla sua primitiva purezza. «Corruzione»
significava allora essenzialmente simonia: monaci, preti, vescovi e papi, in
luogo di praticare le virtù evangeliche a edificazione dei fedeli,
mescolavano sconciamente (così dicevano i loro accusatori) sacro e
profano e badavano ad accumulare ricchezze e poteri. Tutti facevano un gran
commercio di cose sacre (nel che consiste propriamente il peccato di simonia),
in particolare di titoli e cariche: abbazie, vescovati e la stessa cattedra di
San Pietro (ormai preda di un piccolo numero di famiglie nobili romane che se la
disputavano selvaggiamente) si acquistavano con denaro o si conquistavano con la
forza.
In verità, anche se sui costumi del clero si rifletteva
inevitabilmente la barbarie dei tempi, non si trattava di un fenomeno nuovo e
quella presunta purezza della Chiesa primitiva di cui parlavano i riformatori
era del tutto immaginaria. Fin dal tempo di Costantino il clero era stato
coinvolto nella gestione dello Stato e questo coinvolgimento, che aveva
assicurato il trionfo del Cristianesimo sulle altre religioni dell'Impero e lo
spropositato arricchimento della Chiesa proprio nel momento in cui il resto
della società sprofondava nella miseria, rappresentava la causa
principale e diretta della diffusione della simonia.
Al tempo di Carlo
Magno l'integrazione di Chiesa e Stato era diventata tale da rendere assai
confusa la distinzione delle rispettive competenze. Con gli imperatori Sassoni
l'integrazione era diventata ancora più stretta, a causa del sistematico
conferimento a vescovi e abati di poteri civili (investiture di feudi, governi
di città e province, ecc.). Come feudatari i prelati presentavano agli
occhi dell'imperatore il grosso vantaggio di non avere, almeno legalmente, figli
ed eredi, il che significava che alla loro morte i feudi e i governi di cui li
aveva investiti tornavano nelle sue mani. La pratica restituiva dunque
all'imperatore una certa capacità di controllo sui suoi subordinati e
costituiva un ottimo rimedio alla tradizionale e inguaribile indisciplina dei
feudatari laici.
Dal punto di vista religioso presentava però seri
inconvenienti: l'autorità temporale che conferiva i benefici feudali a
vescovi e abati finiva col diventare l'arbitro della loro elezione, contro le
regole ecclesiastiche e a scapito dell'indipendenza e del prestigio della
Chiesa. Era insomma una pratica che contribuiva fortemente alla generale
confusione di sacro e profano e metteva gli imperatori nella contraddittoria
condizione di combattere la simonia per il bene della Chiesa e di diffonderne i
germi per il bene dello Stato. Anche dal punto di vista degli interessi
economici della Chiesa la pratica delle investiture laiche poteva risultare
controproducente. Era vero, infatti, che mescolandosi al potere laico chiese e
monasteri avevano come non mai occasione di arricchirsi e di estendere il
proprio patronato su un numero crescente di sudditi; era anche vero però
che i signori laici finivano col disporre a proprio beneplacito di queste
ricchezze. Nel complesso non era facile dire chi ci guadagnasse.
Il
movimento per la riforma della Chiesa nacque agli inizi del X secolo in ambiente
monastico. Il suo centro fu il monastero di Cluny, fondato nel 910, e
cluniacensi si dissero gli aderenti alla riforma. Sul finire del secolo
successivo i monasteri che avevano adottato la riforma di Cluny erano più
di duemila e altri ordini riformatori erano sorti nel frattempo, come i
Camaldolesi, che vantavano una regola ancora più severa. La riforma
cluniacense si presentava essenzialmente come un ritorno, contro le
degenerazioni degli ultimi secoli, all'originario ascetismo (o almeno alla
frugalità) della vita monastica, intesa, nel senso letterale della parola
(«monaco» deriva dal greco mònos = «solo»), come
ritiro dal mondo, solitudine, silenzio. Era un ritorno soprattutto all'antico
precetto di San Benedetto, ora et labora (= «prega e lavora»), anche
se, in verità, nei monasteri cluniacensi si pregava molto più di
quanto non si lavorasse. In compenso l'interesse per il mondo della produzione
era vivissimo: i cluniacensi, pur lavorando poco, facevano lavorare molto,
fondavano villaggi e mercati, spingevano i propri servi a realizzare migliorie
agricole, si facevano ovunque promotori delle «paci di Dio», nel
tentativo di diminuire nella società il tasso di violenza e di favorire
le attività economiche.
Quando il movimento di riforma uscì
dai monasteri per investire il mondo esterno fu una sorta di rivoluzione: i
fedeli furono invitati a disertare le chiese e i monasteri di cui erano titolari
ecclesiastici simoniaci o concubinari (che vivevano cioè con una
«concubina», loro moglie di fatto, se non di diritto, e madre dei loro
figli); i contadini (che non aspettavano altro) furono invitati a non pagare
loro le decime. Il movimento (a Milano, che ne fu uno dei centri principali,
prese il nome di Pataria) aveva anche un evidente significato antifeudale: col
nome di simoniaci si bollavano in definitiva gli ecclesiastici che accettavano
benefici feudali. La caccia al prete simoniaco o concubinario diventò una
sorta di sport popolare e, naturalmente, come sempre accade nelle grandi
esplosioni di fanatismo, non mancarono episodi di violenza.
A parte le
intemperanze patarine, le correnti riformatrici riuscirono ad avere la meglio
all'interno della Chiesa soprattutto per l'appoggio imperiale. I primi papi
riformatori erano stati nominati dagli imperatori e imposti con la forza delle
armi imperiali alla recalcitrante (e brigantesca) aristocrazia romana. Ma quando
i riformatori furono saldamente insediati sul soglio pontificio, si rivoltarono
contro gli alleati di un tempo rifiutando la loro soffocante protezione.
Condannarono qualsiasi interferenza dell'imperatore nell'elezione dei pontefici
e sollevarono il più generale problema delle doppie investiture: chi
aveva diritto di scegliere l'uomo destinato a svolgere contemporaneamente, per
esempio, le funzioni di vescovo e di conte? I papi riformatori (e fra di loro il
più grande di tutti, Gregorio VII) non avevano dubbi: toccava a
loro.
Non era la rivendicazione di una ragionevole autonomia nei confronti
del potere laico, e tanto meno la richiesta di una separazione tra Stato e
Chiesa. Era semplicemente l'affermazione (del tutto insolita) della
superiorità del potere religioso. Come l'anima è superiore al
corpo - dicevano - così l'autorità spirituale è superiore a
quella temporale. La cosa non riguardava solo l'imperatore, ma qualsiasi
titolare di un potere temporale: poiché ogni potere viene da Dio e
poiché il papa è il vicario di Dio in Terra, anche nelle cose di
questo mondo, ossia nel governo temporale degli uomini al papa spettava una
suprema funzione di guida. Era la dottrina della «teocrazia» (dal
greco theos = «Dio», e kratia = «potere»,
«governo»), formulata da Gregorio VII in un famoso documento, il
Dictatus Papae, fatto di ventisette brevi proposizioni. Ecco alcune di queste
proposizioni:
1. La Chiesa romana è stata fondata da Dio
solo.
2. Solo il Pontefice Romano è a buon diritto detto
universale.
3. Solo lui può deporre o ristabilire i
vescovi.
12. A lui è lecito deporre gli imperatori.
19. Nessuno
deve giudicarlo.
22. Secondo la testimonianza delle Sacre Scritture la
Chiesa Romana non ha mai sbagliato e mai sbaglierà.
23. Il Pontefice
Romano, se eletto regolarmente, diventa sicuramente santo [...].
26. Chi
non è d'accordo con la Chiesa Romana non deve essere considerato
cattolico.
27. Il Pontefice Romano può sciogliere dagli obblighi
della fedeltà i sudditi degli iniqui ossia dei sovrani condanna dalla
Chiesa.
Gli imperatori, naturalmente, non erano affatto disposti ad
accettare princìpi di questo genere (sarebbe stato un suicidio per il
potere laico) e anzi, rifacendosi all'esempio di Costantino e di Carlo Magno,
ritenevano di dover esercitare uno stretto controllo su tutte le attività
della Chiesa, a cominciare proprio dall'elezione dei pontefici. Tra Papato e
Impero si giunse, così, rapidamente a uno scontro durissimo.
La
prima fase di questo conflitto è nota come «lotta delle
investiture», da quella che era effettivamente la questione più
spinosa, risolta nel 1122, a Worms, con una pace di compromesso. Ma sulla
questione del primato il contrasto non era conciliabile e si trascinò per
secoli. I papi, forti delle enormi ricchezze accumulate dalla Chiesa e forti
soprattutto del prestigio di cui godevano come capi indiscussi (o quasi) della
Cristianità occidentale, aizzavano alla rivolta contro l'imperatore i
suoi sudditi, grandi feudatari tedeschi o comuni italiani. Gli imperatori
rispondevano scendendo in Italia alla testa dei loro eserciti, convocando
concili e assemblee di prelati ostili al papa, destituendo il pontefice in
carica e nominandogli un successore. Naturalmente il papa destituito non
riconosceva né la legittimità della propria destituzione
né, tanto meno, l'autorità del suo antagonista (l'antipapa) e
fulminava scomuniche contro tutti.
La lotta non ebbe né vincitori
né vinti: servì soltanto a logorare entrambi i contendenti, Papato
e Impero. La verità è che via via che il tempo passava nessuna
autorità universale poteva sperare di affermarsi in Europa, dove il
particolarismo politico della prima età feudale era stato riassorbito a
poco a poco, ma a vantaggio di altri centri di potere e di altre forze sociali:
le grandi monarchie, i potentati regionali, i comuni.
Toccò a un re
di Francia, Filippo il Bello, infliggere alle pretese teocratiche del Papato la
più cocente umiliazione. Nel 1302 il papa Bonifacio VIII aveva
scomunicato Filippo per lo scarso rispetto dimostrato in più occasioni
per i privilegi ecclesiastici e aveva riconfermato la supremazia dai pontefici
nella bolla (si chiamano così i documenti papali o imperiali dotati di
sigillo, che in latino si dice, appunto, bulla) Unam sanctam (le parole
iniziali, spesso usate come nomi di simili documenti). L'arroganza dell'Unam
sanctam non era inferiore a quella del Dictatus Papae:
... Che ci sia
una e una sola santa Chiesa cattolica apostolica siamo costretti a credere e a
professare [...] perché il Signore dice in Giovanni, ossia nel Vangelo di
Giovanni, che c'è un solo ovile, un solo e unico pastore. [...]
Noi
sappiamo dalle parole del Vangelo che in questa Chiesa e in suo potere ci sono
due spade, una spirituale e una temporale, perché quando gli Apostoli
dissero: - Ecco qui due spade - (e qui significa «nella Chiesa», dato
che erano gli Apostoli a parlare), il Signore non rispose che erano troppe, ma
che erano sufficienti. [...] Ambedue sono in potere della Chiesa, quella
spirituale e quella materiale: questa in verità impugnata per la Chiesa,
quella dalla Chiesa; la prima dal clero, la seconda dalla mano di re o di
cavalieri, ma sempre secondo il comando o il consenso del clero, perché
è necessario che una spada dipenda dall'altra e che l'autorità
temporale sia soggetta a quella spirituale. [...]
Se il potere temporale
erra sarà giudicato da quello spirituale; se il potere spirituale
inferiore erra, sarà giudicato da quello superiore; ma se sbaglia il
supremo potere spirituale, questo potrà essere giudicato solo da Dio, e
non dagli uomini. [...] Perciò noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo e
affermiamo che è assolutamente necessario per la salvezza di ogni
creatura umana che essa si sottometta al pontefice di Roma...
Come
risposta, nel settembre del 1303 Filippo il Bello mandò un gruppo di
armati in Anagni, dove il papa risiedeva, e lo fece arrestare. Guglielmo di
Nogaret, che comandava la spedizione, minacciò di trascinarlo a Lione per
sottoporlo al giudizio di un Concilio. Si disse che in quel frangente il papa
fosse stato addirittura schiaffeggiato. Il cronista Giovanni Villani lo nega:
«Come piacque a Dio, per conservare la santa dignità papale, niuno
ebbe ardire di toccarlo e non piacque loro di porgli mano addosso».
Comunque sia, quello di Anagni fu un terribile schiaffo, se non fisico, morale,
tanto che Bonifacio, «che tutto si rodea come rabbioso», ne
morì nel giro di un mese.
Allo schiaffo d'Anagni seguì la
cosiddetta «cattività avignonese» (dal latino captivitas =
«prigionia»; l'espressione ricorda la «cattività
babilonese», ossia la deportazione del popolo di Israele a Babilonia al
tempo di Nabuccodonosor), che fu una dimostrazione forse ancora più
evidente dello stato di crisi in cui si dibatteva il Papato: i papi dovettero
acconciarsi a trasferire la propria residenza da Roma ad Avignone mettendosi
sotto la gelosa sorveglianza dei re di Francia. Il che, per altro, non
significò affatto una diminuzione del loro potere politico ed economico
(si può dire anzi che mai come in quel momento la Chiesa abbia
consapevolmente imboccato la strada di una totale mondanizzazione), né li
indusse a rinunciare alle solite pretese di supremazia, come si vide di
lì a poco nel conflitto tra il papa Giovanni XXII e l'imperatore Ludovico
il Bavaro.
Papa Bonifacio VIII in un affresco attribuito a Giotto
SIMONIA, PATARIA
Simon Mago era un fortunato indovino e
fattucchiere che, secondo la leggenda, visto il successo della nuova religione
cristiana, aveva cercato di comperare da San Giovanni e da San Pietro il dono
dello Spirito Santo. Da Simon Mago è stato coniato il termine
«simonia» per indicare il comportamento di quanti fanno commercio di
cose sacre o esercitano la professione sacerdotale a fini di lucro o di
potere.
I patarini milanesi furono tra i più accesi avversari delle
pratiche simoniache. Patta è un'antica voce mediterranea che vuol dire
spazzatura, rifiuto, cencio. In milanese patèe vuol dire
«rigattiere» e a Milano c'è ancora una Via dei Pattari. Il nome
«Pataria» richiama insomma gli stracci di quel popolo che a Milano,
nell'XI secolo, fu lo sbrigativo braccio secolare dei grandi riformatori
ecclesiastici.
LA LOTTA DELLE INVESTITURE
L'uso delle armi «spirituali»,
come la scomunica, era tutt'altro che inoffensivo. Secondo una tesi che i papi
presero a sostenere (e che faceva assai comodo ai grandi feudatari) tra i re e i
popoli loro soggetti c'era una sorta di patto non scritto che impegnava entrambi
alla difesa della vera religione e che, se veniva violato dal re, dava ai
sudditi il diritto di ribellarsi. La scomunica da parte del papa era appunto la
sanzione dell'avvenuta violazione e scioglieva automaticamente i sudditi
dall'obbligo della fedeltà. Con ciò i papi si riservavano il
diritto di deporre a loro piacimento i sovrani, considerati semplici
«bracci temporali» della Chiesa. L'episodio che nel 1076 diede inizio
alla lotta delle investiture, l'umiliazione di Canossa, dimostrò quanto
fossero temibili le scomuniche, soprattutto quando servivano a coprire interessi
mondani.
Il papa Gregorio VII aveva condannato formalmente la pratica delle
investiture laiche, ossia l'uso dei signori laici di dare a ecclesiastici
l'investitura di feudi e governi. L'imperatore Enrico IV, con un grave errore di
valutazione, aveva ignorato la cosa e alle minacce di scomunica formulate dal
papa aveva risposto facendolo deporre da un sinodo appositamente convocato a
Worms. Gregorio reagì fulminando la scomunica e scatenando la guerra
civile in Germania. Enrico IV corse allora ai ripari: prevenendo il papa, che
stava dirigendosi in Germania, si precipitò in Italia e lo raggiunse nel
castello di Canossa (l'espressione «andare a Canossa» è
diventata proverbiale) dove Gregorio era ospite della potentissima contessa
Matilde di Toscana. In veste di penitente, l'imperatore (in basso) chiese
perdono al papa (a sinistra in alto, col pastorale). Fu Gregorio VII, questa
volta, ad essere preso alla sprovvista: non era affatto contento di dover
risparmiare l'avversario nel momento in cui aveva la possibilità di
schiacciarlo, ma come sacerdote di Cristo non poteva onestamente negare il
perdono.
La scomunica fu revocata ed Enrico IV, repressa la rivolta dei
suoi vassalli, ricominciò daccapo con le investiture di ecclesiastici.
Gregorio lo scomunicò di nuovo e di nuovo Enrico, occupata Roma, lo
depose e gli nominò un antipapa (1084). Tra i due litiganti chi ci
guadagnò furono i Normanni, che si erano costruiti un grande Stato
nell'Italia meridionale e in Sicilia cacciandone i Saraceni e i Bizantini, ed
eliminando gli ultimi Longobardi.
Chiamati da Gregorio, i Normanni, guidati
da Roberto il Guiscardo in cambio di consistenti privilegi, accorsero a Roma con
un esercito raccogliticcio di cui facevano parte anche alcuni reparti saraceni,
e cacciarono Enrico. Poi, però, per rifarsi delle spese, sottoposero la
città a un sacco talmente orribile, che per sottrarsi alla rabbia del suo
popolo Gregorio VII fu costretto a seguire i suoi «liberatori» a
Salerno, dove morì ufficialmente loro ospite, di fatto loro
prigioniero.
GUELFI E GHIBELLINI
Nel conflitto tra imperatori e papi i
sostenitori dei primi si dicevano ghibellini, quelli dei secondi guelfi.
«Ghibellini» viene dal tedesco Wibelingen o Weiblingen attributo degli
Hohenstaufen, duchi di Svevia, derivato da Wibeling, un loro castello in
Franconia. «Guelfi» viene invece da Welf, che era il capostipite dei
duchi di Baviera, rivali degli Hohenstaufen. In sostanza erano le denominazioni
delle due grandi casate principesche, diventate i gridi di battaglia dei
rispettivi seguaci. Quando l'imperatore Federico Barbarossa scese in Italia
contro i comuni e contro il papa, il grido di guerra delle sue truppe,
«Wibeling!» diventò, italianizzato in Ghibellini, il nome dei
suoi seguaci; per analogia furono detti Guelfi i suoi nemici.
FRANCIA E INGHILTERRA
Secondo una teoria diffusa nel Medio Evo,
ogni potere legittimo doveva derivare dalle due sole autorità supreme e
universali, l'imperatore e il papa. Ma i principi che tra l'XI ed il XIV secolo,
piegando all'obbedienza i propri vassalli ed estendendo prudentemente con
alleanze o con matrimoni l'area dei propri domini diretti, erano venuti
costruendo vaste ed efficienti organizzazioni statali non tolleravano alcun
superiore, o, se trovavano conveniente riconoscerne uno per qualche tempo, se ne
sbarazzavano appena possibile.
In Francia, per esempio, il re Filippo I
(1060-1108) e i suoi immediati successori avevano accettato in linea di massima
le tesi teocratiche relative alle investiture e al primato della Chiesa sullo
Stato e questo aveva consentito loro di utilizzare il clero per tenere a bada i
grandi feudatari (molti dei quali vennero spogliati dei loro beni a favore della
Chiesa e della Corona). Ma, consolidato il potere monarchico, la musica
cambiò completamente. Come abbiamo visto, fu proprio un sovrano francese,
Filippo IV detto il Bello (1268-1314), che, all'inizio del Trecento, di fronte a
tutta l'Europa, umiliò le pretese della teocrazia papale facendo
addirittura arrestare il pontefice di allora, Bonifacio VIII. Quanto all'Impero,
Petrarca, nel Trecento, lo considerava già «un nome vano». Non
era più tempo di universalismi: quelli che contavano erano gli Stati
nazionali, e in primo luogo la Francia e l'Inghilterra.
In Francia, dopo la
dissoluzione dell'Impero carolingio si erano costituite diverse potenti casate
feudali (le contee di Fiandre, di Champagne, di Tolosa, i ducati di Normandia,
di Bretagna, di Aquitania ecc.). I nuovi re di Francia, i Capetingi (da Ugo
Capeto, 941-996, «conte e abate» di Parigi, loro capostipite),
controllavano all'inizio la città e il contado di Parigi e poco di
più. Lentamente estesero i propri domini a spese dei grandi feudatari
cercando l'appoggio, oltre che del clero, dei nuovi ceti urbani. Sia il re sia
la nascente borghesia mercantile avevano interesse a limitare il potere dei
signori feudali. Già Luigi VI, che regnò dal 1108 al 1137, per
contrastare le più potenti casate aristocratiche aveva cercato l'alleanza
delle città, concedendo loro numerosi privilegi soprattutto in campo
fiscale. Dopo il regno di Luigi VII (1137-1180), occupato in gran parte dalle
guerre con Enrico II d'Inghilterra (di cui parleremo fra poco), questa politica
fu ripresa con notevole successo da Filippo II detto Augusto (1165-1223), il
quale largheggiò ancor più del suo avo nel favorire le
città, a patto che queste passassero sotto la protezione del re e si
impegnassero a difendere gli interessi della corona.
Filippo II Augusto
sostituì il vecchio titolo di re dei Franchi con quello di re di Francia,
un evento che si è voluto interpretare come prima, aurorale
manifestazione della vocazione «nazionale» della monarchia francese
(per quel che può valere la parola «nazione» in età
medievale). In una lunga serie di campagne militari Filippo II riuscì a
strappare ai sovrani inglesi, Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senza Terra,
gran parte dei possedimenti che avevano sul continente, in Normandia, in
Bretagna e in Aquitania. Il suo maggior titolo all'appellativo di Augusto (alla
lettera «consacrato dagli auguri»: indica maestà, forza,
imponenza) sta forse nell'aver piegato all'obbedienza l'aristocrazia
(sostituì dove possibile la giustizia feudale con tribunali e giudici
regi) e il clero (di cui cercò di limitare i privilegi fiscali e
giudiziari).
Evento decisivo e in qualche modo emblematico del regno di
Filippo fu, nel 1214, la battaglia di Bouvines nella quale sconfisse due dei
suoi maggiori feudatari, il conte di Boulogne e quello di Fiandra, che gli si
erano ribellati e si erano schierati con i suoi nemici, il re d'Inghilterra,
Giovanni Senza Terra, e l'imperatore Ottone di Brunswick. Nella politica di
espansione territoriale di Filippo Augusto si inserisce anche la crociata contro
gli Albigesi (1208-1213) della Linguadoca a cui il re non partecipò
direttamente, ma a cui permise che partecipassero in massa i suoi vassalli sotto
la guida di Simone di Montfort. La conquista della Linguadoca fu poi completata
dal figlio di Filippo, Luigi VIII (1187-1226).
La moderna monarchia
inglese, è nata con la battaglia di Hastings del 1066, nella quale il
duca di Normandia, Guglielmo il Bastardo, poi ribattezzato il Conquistatore
(1027-1087), legato per alleanza e per parentela all'ultimo re inglese, che era
morto senza eredi, sconfisse l'altro pretendente al trono, Aroldo, sostenuto dai
Sassoni. Nel giro di tre o quattro anni Guglielmo occupò tutto il Paese,
distribuendo via via ai suoi seguaci normanni i possedimenti tolti ai vecchi
baroni sassoni. Conclusa la sottomissione delle popolazioni sassoni
(l'ostilità tra Sassoni e Normanni restò a lungo una componente
della vita politica inglese), Guglielmo organizzò il suo regno secondo un
preciso e funzionale schema amministrativo che si scostava sensibilmente da
quello del tradizionale Stato feudale: sotto Guglielmo i baroni inglesi non
ebbero mai le larghe immunità di cui godevano invece i signori feudali
sul continente. Le contee inglesi, erano affidate a ufficiali di nomina regia,
gli sceriffi, che dipendevano interamente dal re ed erano sorvegliati da
ispettori e giudici regi.
Nella storia della monarchia inglese si sono
alternate continuamente fasi in cui le autonomie feudali e le immunità
ecclesiastiche finivano per prevalere sulla volontà dei re, o almeno per
condizionarla fortemente, e fasi caratterizzate invece dall'iniziativa regia.
Uno dei momenti di maggior forza del potere centrale fu segnato dal regno di
Enrico II (1133-1189), fondatore della dinastia dei Plantageneti, e padrone, per
via di eredità e di matrimoni, di vastissimi territori anche sul
continente: Angiò, Normandia, Maine, Aquitania, Turenna. Con l'aiuto del
clero e dell'arcivescovo di Canterbury, Thomas Becket, Enrico riuscì a
piegare i feudatari al rispetto della sua legge. Quando però tentò
di fare la stessa cosa con gli ecclesiastici, incontrò la fiera
opposizione dello stesso Becket. Enrico, allora, prima esiliò
l'arcivescovo, poi lo fece assassinare. Oltre che un delitto, fu un errore
politico. La morte di Becket suscitò l'indignazione popolare,
opportunamente alimentata dalla Chiesa; ad essa si accompagnò la
sanguinosa rivolta degli stessi figli di Enrico, attivamente sostenuta dal re di
Francia. Alla fine Enrico, isolato, dovette cedere e accettare patti
umilianti.
Nonostante tutto, però, il regno di Enrico II si chiuse
con un bilancio largamente positivo: l'amministrazione del regno era stata
riorganizzata e resa più efficiente, i baroni tenuti a freno, il clero
sfidato apertamente e i suoi privilegi in qualche modo limitati. Lo spirito di
autonomia dei baroni e del clero si prese presto una rivincita con il re
Giovanni Senza Terra (1167-1216), che, reduce dalla sconfitta di Bouvines e
rimasto senza prestigio e senza soldi (come dice il suo stesso appellativo), fu
costretto nel 1215 a sottoscrivere la Magna Charta Libertatum. Questo famoso
documento, il cui scopo dichiarato era di limitare il potere regio, è
talvolta ricordato come uno dei più antichi e autorevoli testi della
moderna tradizione parlamentare. Si tratta di un'indicazione impropria: la Magna
Charta non era un manifesto politico o filosofico, né tanto meno una
dichiarazione di diritti sul genere di quelle con le quali si aprono le
costituzioni moderne. Le «libertà» che vi erano
puntigliosamente elencate costituivano piuttosto una confusa sequela di
privilegi feudali ed ecclesiastici.
Due principi sanciti nella Magna Charta
meritano però di essere ricordati, anche perché esercitarono
davvero un ruolo importantissimo in tutta la successiva storia costituzionale
dell'Inghilterra (e non solo dell'Inghilterra): la norma che vietava al re di
imporre tributi senza avere prima ottenuto il consenso del Parlamento (ossia di
un apposito consiglio di nobili ed ecclesiastici, detto poi la Camera dei Lord)
e quella che conferiva a un comitato di venticinque baroni il compito di
vigilare sull'osservanza della Carta ed eventualmente di imporla al re con le
armi (il che equivaleva a riconoscere il diritto dei sudditi all'insurrezione).
Coevo alla Magna Charta è l'impegno sottoscritto dal re, detto
dell'Habeas corpus (dalle parole iniziali del documento), in virtù del
quale nessun membro della nobiltà poteva essere arrestato arbitrariamente
o trattenuto in carcere senza un motivato provvedimento dell'autorità
giudiziaria.
Enrico III (1207-1272), figlio e successore di Giovanni Senza
Terra, tentò di eludere l'autorità del Parlamento minacciando
più volte di revocare la Magna Charta, ma riuscì solo a
precipitare l'Inghilterra nella guerra civile: le Provvisioni di Oxford, che
Enrico III fu costretto a sottoscrivere nel 1258, confermarono e integrarono le
disposizioni della Magna Charta. L'assetto così definito fu poi
completato pochi anni dopo, nel 1265, con l'istituzione, a fianco di quella dei
Lord, della Camera dei Comuni: era il riconoscimento del peso politico
acquistato nel frattempo dai ceti borghesi di cui, nel conflitto con il re, la
nobiltà e il clero avevano cercato e ottenuto
l'appoggio.
IL BECKET DI ELIOT
Il 29 dicembre del 1170, l'arcivescovo e
primate d'Inghilterra Thomas Becket venne assassinato, durante gli uffici
divini, nella cattedrale di Canterbury. Ad ucciderlo erano stati quattro
cavalieri su mandato di Enrico 11 Plantageneto, re d'Inghilterra. Si concludeva
così, tragicamente, il lungo conflitto tra i due, sorto, ancora una volta
(e certamente non per l'ultima nella storia dell'Europa medievale), dalla
difficile coesistenza dell'autorità civile dei re con un'autorità
ecclesiastica che era emanazione diretta della Chiesa di Roma. Il letterato
Thomas Stearns Eliot (1888-1965), statunitense di nascita ma inglese di
adozione, premio Nobel per la letteratura nel 1948, ha tratto ispirazione da
questo episodio storico per il suo dramma Assassinio nella cattedrale, scritto
nel 1935. Da molti definito come una vera e propria «sacra
rappresentazione», per la consapevolezza tragica che caratterizza i
personaggi (tra i quali predominano le presenze di «gruppo» con
funzioni di coro: le donne di Canterbury, i preti, i tentatori, i cavalieri,
ecc.) e per l'impostazione rituale della vicenda, il dramma di Eliot è
incentrato sulla complessa personalità di Becket.
Il Becket di Eliot
è un uomo di potere: ha alle spalle ottimi studi e una vita mondana
condivisa in gioventù proprio con l'amico Enrico II, a cui deve prima la
nomina a cancelliere del regno e poi quella ad arcivescovo di Canterbury, la
massima carica religiosa del Paese. Quest'uomo di potere è destinato,
però, a diventare martire e santo: un destino ambiguo, che può
essere vissuto come ultima e suprema espressione di potere e autorità,
oppure con l'umiltà propria degli uomini di fede. Eliot tratteggia Becket
come vittima consapevole di questo conflitto di ruoli e di sentimenti, spesso
presente alla coscienza di altre grandi personalità della cultura e della
politica del Medio Evo, ma tutt'altro che estraneo all'esperienza dell'uomo
moderno.
PARLAMENTO
Il termine «Parlamento» indicava
in antico il semplice atto di parlare e si è usato, per naturale
estensione, per indicare qualsiasi adunanza convocata per discutere, negoziare,
deliberare o, appunto, «parlamentare». Il francese parlement, a
partire dal XIII secolo e sino alla rivoluzione francese, ha significato
tribunale o corte di giustizia (per antonomasia il luogo di dibattito). Un ruolo
particolarmente importante tra le istituzioni della monarchia francese ha avuto
sino alla rivoluzione il Parlamento di Parigi, che era appunto una corte di
giustizia.
Dal francese parlement è venuto l'inglese parliament
usato però per indicare l'insieme delle assemblee rappresentative del
regno, la Camera dei Lord (che del resto era anche un'alta corte di giustizia) e
quella dei Comuni. Bisogna stare attenti a non fare confusione: in Francia (fino
alla rivoluzione francese) le assemblee rappresentative che erano l'equivalente
del Parlamento inglese non erano i Parlamenti (che erano corti di giustizia), ma
gli Stati Generali (di cui parleremo più avanti). In italiano (come del
resto nel francese moderno) la parola, per influsso dell'inglese parliament, ha
il significato di assemblea politica rappresentativa della
Nazione.
LA CHIESA TRA RIFORME ED ERESIE
La riforma ecclesiastica promossa, a partire
dal X secolo, dai monaci cluniacensi e ripresa, tra l'altro, dal movimento
popolare milanese della Pataria, si era esaurita in breve tempo. Le pretese
teocratiche dei papi riformatori spingevano inesorabilmente la Chiesa verso una
sempre più spinta mondanizzazione: più privilegi, più
immunità, più ricchezze, più potere. All'interno del mondo
monastico, dove lo straordinario successo del movimento cluniacense aveva
coinciso con un sostanziale allentamento della disciplina, già alla fine
dell'XI secolo riemersero le antiche esigenze di riforma, di cui si fecero
interpreti questa volta i monaci cistercensi (dalla località, Cistercium
in latino, o Citeaux in francese, nella quale fu fondato nel 1098 il loro primo
monastero). Il grande propugnatore della nuova riforma fu, nel XII secolo, San
Bernardo fondatore del monastero di Clairvaux (Chiaravalle): ancora una volta
l'intento era di ritornare all'originario rigore della regola benedettina, di
cui, però, a differenza dei cluniacensi, i cistercensi sottolinearono con
forza l'obbligo del lavoro manuale.
La riforma dei Cistercensi, come del
resto quella dei Cluniacensi che l'aveva preceduta, non era che una delle molte
manifestazioni della crescente insofferenza verso la mondanizzazione della
Chiesa. Per essere più precisi, era l'espressione di questa insofferenza
quale poteva manifestarsi all'interno della Chiesa. Ma altre ve ne erano che si
ponevano fuori e contro la Chiesa. Viste dalla Chiesa si trattava di movimenti
ereticali, contrari cioè alle verità di fede e agli insegnamenti
di Cristo, mentre dal loro punto di vista era la Chiesa ufficiale che aveva
stravolto e tradito i princìpi del Vangelo. Per quanti volevano riformare
la Chiesa dall'interno il problema era di perseguitare i preti simoniaci e
concubinari; per gli «eretici» era la Chiesa stessa, simoniaca in ogni
sua parte, che si era fatta concubina del Diavolo.
È quello che in
sostanza pensavano i Catari, un movimento attivo già nell'XI secolo e che
rappresentò per molti aspetti un ritorno di tesi manichee. Tra Bene e
Male, tra Dio e Mammona, dicevano i Catari, non ci sono conciliazioni possibili
e gli uomini devono scegliere: i puri (katharòs in greco significa
«puro») si schierano con Dio; gli altri stanno con Mammona.
L'avidità di ricchezze e di potere di cui la Chiesa ufficiale dava
continua prova anche nella sua ala riformata era il segno manifesto della sua
alleanza con Mammona (Mammona era un dio pagano della ricchezza e per i
cristiani stava a indicare, per estensione, il demonio).
I Catari erano
diffusi specialmente in Linguadoca ed erano detti anche Albigesi, dalla
città di Albi, in Provenza, uno dei loro centri più importanti.
Nel 1208 il papa Innocenzo III lanciò contro di loro una crociata di
annientamento con grande soddisfazione delle migliaia di cavalieri a cui veniva
offerta l'opportunità di guadagnarsi il paradiso mettendo a sacco una
delle regioni più ricche e civili del tempo (e con gran profitto della
monarchia di Francia, che alla fine, restò padrona di quelle terre anche
se devastate).
All'annientamento sono invece sfuggiti i Valdesi, ossia i
seguaci di Pietro Valdo, un ricco mercante di Lione, vissuto nel XII secolo, che
in seguito a un'improvvisa crisi religiosa prodotta, pare, dalla morte di un
amico, fece quello che, nella generazione successiva, avrebbe rifatto ad Assisi
San Francesco: distribuì i suoi beni ai poveri e si mise a predicare il
Vangelo (che fece tradurre dal latino in volgare perché tutti potessero
intenderlo e interpretarlo liberamente). Quello di Valdo e dei suoi seguaci, era
un Cristianesimo ragionevole, amabile, senza complicazioni teologiche. I Valdesi
vivevano secondo una morale austera ma senza ostentazioni di santità, in
questo diversi dai Catari, che si consideravano un gruppo di eletti. I Valdesi
furono formalmente condannati come eretici nel 1184 e subirono nei secoli
successivi ripetute, sanguinose persecuzioni. Tenacemente arroccati nelle valli
alpine dove il movimento aveva messo le prime radici, sono sopravvissuti alle
stragi (forse con l'aiuto di Dio, ma certo anche perché, all'occorrenza,
erano capaci di fare a pezzi i loro persecutori) e sono tuttora attivi in
Italia.
Contro le eresie la Chiesa adoperò sia le armi della
persuasione, sia quelle della coercizione. A persuadere e a convertire era
diretta la predicazione, a cui si dedicarono specialmente l'ordine dei
Francescani, fondato dall'italiano Francesco d'Assisi (1182-1226) e quello dei
Domenicani fondato dallo spagnolo Domenico di Guzman (1170-1221). Entrambi gli
ordini, in funzione di questo loro fondamentale compito di predicare le
verità della Chiesa, ma in concorrenza l'uno con l'altro (e cioè
disputandosi con accanimento le cattedre di tutte le più celebri
università) diedero un forte incremento agli studi filosofici e teologici
tanto che gran parte della storia del pensiero europeo del Basso Medio Evo
può essere ricondotta alla loro attività.
I Francescani,
però, nella lotta e nella prevenzione dell'eresia avevano un'arma in
più: un modello di vita che raccoglieva gli elementi più
suggestivi delle esperienze che erano chiamati a combattere, il che consentiva
di svuotare l'eresia di una parte almeno del suo fascino. La loro forza stava
insomma nel rassomigliare a un movimento ereticale senza esserlo. Oltre al gesto
di rinunciare pubblicamente ai propri beni, che ripeteva l'esempio di Pietro
Valdo, anche la predicazione di Francesco d'Assisi richiamava, almeno nei suoi
valori essenziali (la semplicità del Vangelo e la povertà di
Cristo) quella valdese. Diversissima, addirittura opposta, era stata invece la
sua azione, sempre molto attenta a non urtare le suscettibilità della
Chiesa ufficiale.
La scelta della povertà e dell'umiltà
evangeliche, secondo Francesco, non doveva suonare condanna dell'opulenza
clericale o dell'autocrazia papale. In altre parole, Francesco offriva alla
Chiesa la straordinaria opportunità di un movimento pauperistico (dal
latino pauper = «povero») non ereticale, organizzato cioè non
contro la Chiesa, ma dentro di essa e al suo servizio per assicurarne la
presenza tra le masse turbolente dei diseredati. La Chiesa non si fece sfuggire
l'occasione. Nel 1223 la regola francescana fu approvata dal papa e nel 1228
Francesco fu fatto santo. A reprimere le eresie, oltre le grandi imprese di
sterminio, come quella contro gli Albigesi, fu istituito nel 1184 uno speciale
tribunale, l'Inquisizione, che aveva il compito di ricercare (mediante un
capillare apparato di delatori), catturare, inquisire (la tortura ne era lo
strumento ordinario) e punire (nei casi gravi con il rogo) gli eretici. A
partire dal 1235 il tribunale dell'Inquisizione fu affidato ai Domenicani.
Grandi teologi (Tommaso d'Aquino, 1221-1274, era uno di loro) e predicatori
(l'ordine si dice appunto «dei Predicatori»), i Domenicani si
rivelarono ancora più grandi come persecutori: in oltre cinque secoli di
attività hanno prodotto una straordinaria massa di sofferenze e un numero
incalcolabile di morti. Con un facile gioco di parole amavano chiamarsi Domini
canes, e cioè «cani del Signore», fedeli custodi della Chiesa.
Accaniti: fedeli e feroci, appunto, come cani.
AUTOCRAZIA
Viene dal francese autocratie, una parola
coniata nella seconda metà del Settecento (più o meno all'epoca
della Rivoluzione Francese) sullo stampo del greco autokràteia, composto
di autòs = «se stesso», e kratèin =
«comandare». Alla lettera «autocrate» vuol dire che ha la
forza (il potere) in sé stesso: già nell'antica Grecia stava a
indicare il tiranno, che governava a proprio arbitrio, senza limiti di legge. In
generale «autocrazia» sta a indicare un potere personale e assoluto,
privo di condizionamenti. Lo si adopera in particolare per indicare il potere
dei papi all'interno della Chiesa (quale essi hanno finito con il realizzare
imponendo la propria assoluta supremazia sugli altri vescovi e sui concili),
quello degli imperatori bizantini e quello dei loro continuatori, gli zar di
Russia.
LA CHIESA, LO STATO, IL POPOLO
Nonostante la mansuetudine di Francesco
d'Assisi e la sua personale vocazione all'obbedienza non fu mai facile
addomesticare del tutto il movimento francescano e disinnescare il potenziale
eversivo presente nella scelta della povertà e dell'umiltà di
Cristo. Dal movimento francescano, diviso al suo interno in orientamenti diversi
e talvolta addirittura inconciliabili, continuarono a uscire per molto tempo
voci di protesta, richieste di riforma e anche battagliere correnti rigoriste
poco preoccupate di esser tacciate di eresia; al suo esterno gli si affiancarono
ripetutamente e pericolosamente altre correnti pauperistiche schiettamente
ereticali. Proprio sul tema della povertà, nella prima metà del
Trecento, tra l'ordine francescano e il Papato, che aveva trasferito la sua sede
in Avignone, i rapporti divennero molto tesi. Il conflitto, intrecciandosi con
quello, ormai tradizionale, tra Papato e Impero, parve per un momento che
dovesse dar vita all'interno della Chiesa a un'effettiva alternativa democratica
all'autocrazia papale.
L'imperatore Ludovico IV il Bavaro (1287-1347) si
era rifiutato di ammettere la tesi della supremazia papale ribadita dal
pontefice Giovanni XXII; tesi, in verità, che appariva tanto più
assurda in quanto a sostenerla era un papa francese, che, dopo l'umiliazione di
Anagni inflitta da Filippo il Bello a Bonifacio VIII, aveva accettato di
spostare la sua residenza in Avignone giustificando le accuse che gli venivano
rivolte da più parti di essere di fatto ostaggio del re di Francia.
Giovanni XXII non solo aveva scomunicato Ludovico, ma gli aveva addirittura
lanciato contro una crociata. L'imperatore aveva reagito appellandosi, al
solito, all'autorità di un concilio e soprattutto appoggiando la rivolta
dell'ordine francescano contro il papa. Alla fine, accusando Giovanni di eresia
e apostasia, lo aveva dichiarato decaduto e gli aveva contrapposto un nuovo
papa, Nicolò V, il francescano Pietro Rainallucci.
La rivolta
dell'ordine francescano contro Giovanni XXII era sorta, come si è
accennato, sulla questione della povertà di Cristo. Nel 1322 il capitolo
generale dei Francescani riunito a Perugia aveva approvato ufficialmente la
dichiarazione che né Gesù e né gli Apostoli avevano mai
posseduto nulla, né singolarmente, né in comune. Questa
affermazione, che aveva un evidente significato polemico, aveva mandato in
bestia il papa Giovanni XXII, che in tre bolle successive, pubblicate tra il
1322 e il 1324, dichiarò eretico chiunque osasse negare che Cristo e gli
Apostoli erano stati a tutti gli effetti proprietari, e convocò in
Avignone il generale dei Francescani, Michele da Cesena, perché
rispondesse del comportamento dell'ordine.
Ad Avignone c'era un altro
francescano, l'inglese Guglielmo di Occam, uno dei più grandi pensatori
del Medio Evo, che era stato anche lui convocato dal papa per rispondere di
certe sue tesi filosofiche ritenute poco ortodosse. I due ebbero così
l'opportunità di conoscersi e di stringere un'amicizia che sarebbe durata
tutta la vita. La notte del 26 maggio 1328 entrambi fuggirono da Avignone e
ripararono alla corte dell'imperatore. Si racconta che, raggiunto Ludovico il
Bavaro, Occam gli abbia detto: Defende me gladio, ego te defendam calamo
(«Difendimi con la spada, ti difenderò con la penna»). In
effetti cominciò allora una nuova, intensa fase dell'attività
pubblicistica di Occam, rivolta, in collaborazione con Michele da Cesena, a
difendere l'autorità imperiale dalle pretese egemoniche del
Papato.
Alla corte imperiale i due francescani incontrarono Marsilio
Mainardini, più noto come Marsilio da Padova (1275-1343 ca.), giurista e
teologo, che in qualità di consigliere politico ed ecclesiastico
dell'imperatore, aveva avuto un ruolo importante nella lotta contro il papa
avignonese. Marsilio, che aveva studiato a Padova e poi a Parigi (dove era stato
rettore dell'Università dal 1312 al 1313, ma da dove era fuggito per
sottrarsi alle persecuzioni delle autorità ecclesiastiche) era l'autore
di una delle più grandi opere politiche di tutto il Medio Evo, il
Defensor pacis (Difensore della Pace, terminato nel 1324), che ribaltando le
tesi teocratiche sosteneva la necessità di eliminare qualsiasi potere
temporale della Chiesa e di sottomettere alla suprema autorità civile
molte materie tradizionalmente considerate di religione. Senza opportune
limitazioni, sosteneva Marsilio, la Chiesa cattolica, con la sua organizzazione
e la sua gerarchia, non era soltanto un'istituzione inutile per la salvezza
delle anime, ma rappresentava una vera e propria minaccia per la sicurezza dello
Stato e per la pace dei cittadini. Quanto allo Stato, secondo Marsilio (che
può essere considerato il primo teorico della sovranità popolare),
la fonte di tutti i suoi poteri stava nel popolo, e i principi erano tali solo
per delega popolare. Naturalmente la Chiesa non mancò di condannare come
eretiche le sconvolgenti tesi laiche e «democratiche» di
Marsilio.
Mentre Marsilio, nella lotta contro il papa di Avignone,
difendeva l'autonomia dello Stato e, al suo interno, il ruolo sovrano del
popolo, Occam si diede a difendere l'autonomia della coscienza individuale e la
libertà del popolo cristiano all'interno della Chiesa. Scegliere Cristo -
sosteneva - vuol dire rinunciare ai beni di questo mondo: non solo alle
ricchezze, ma anche (e soprattutto) al potere sugli altri uomini. La
libertà del fedeli è la sola e vera legge della Chiesa di Cristo.
Nessuna verità può essere imposta con la forza alla coscienza
degli uomini. Verità, del resto, sono quelle che la tradizione della
Chiesa ha riconosciuto come tali. Ma la Chiesa non è né il papa,
né il concilio. La Chiesa è la comunità di tutti fedeli,
«la moltitudine di tutti i cattolici vissuti dai tempi dei profeti e degli
apostoli sino ad oggi».
Michele da Cesena e Marsilio da Padova
morirono tra il 1342 e il 1343, Ludovico il Bavaro nel 1347, Occam nel 1349. La
Chiesa si liberò dei gruppi di opposizione e in particolare delle
correnti pauperistiche. L'episodio era chiuso. Restavano gruppi estremistici o
ereticali sparsi un po' dovunque, restava il ricordo di un'esperienza
riformatrice arrivata a un passo dal successo, e restavano, naturalmente, le
idee. Alcune di queste sarebbero riaffiorate in Inghilterra nella generazione
successiva con John Wyclif e con il movimento, sorto intorno a lui, dei Lollardi
(vedi oltre).
GIOACCHINO DA FIORE E L'ESTREMISMO FRANCESCANO
Accanto alle eresie dei Catari e dei Valdesi
si svilupparono tra il XII e il XIII secolo altri movimenti ereticali che in
parte le richiamavano e in parte se ne distinguevano per una più
accentuata dose di misticismo, di ascetismo, di millenarismo, di estremismo
spiritualistico: alla base, tuttavia, c'era sempre una critica radicale nei
confronti della Chiesa e delle sue istituzioni temporali. Questi movimenti si
ispiravano tutti in un modo o nell'altro al gioachimismo ossia alle dottrine di
Gioacchino da Fiore, calabrese, abate cistercense, morto nel 1202, che aveva
elaborato una singolare teologia della storia non centrata esclusivamente sulla
venuta di Cristo, bensì a base trinitaria. In sostanza, Gioacchino
sosteneva che alle tre persone della Trinità corrispondono tre diverse
epoche storiche: a) l'età del Padre ovvero l'età della legge,
della carne, dei laici; b) l'età del Figlio o età cristiana, della
durata di 1260 anni, che è qualcosa di intermedio fra l'età della
carne e quella dello spirito, ed è altresì l'età dei
chierici; c) l'età dello Spirito Santo, ovvero dei monaci, che avrebbe
dovuto avere inizio appunto nel 1260 e durante la quale l'ormai corrotta Chiesa
della «carne» sarebbe stata sconfitta dalla nuova Chiesa dello
«spirito».
Il pensiero gioachimita, condannato una prima volta
dal Concilio lateranense del 1215 e poi respinto dal sinodo di Arles del 1263,
ebbe una larghissima diffusione. Fu accolto, ad esempio, dalle correnti estreme
del movimento francescano e in particolare dagli Spirituali, che, contro il
lassismo dei Conventuali, erano sostenitori di una rigida osservanza della
regola di San Francesco particolarmente in relazione alla questione della
povertà. In questi ambienti estremistici, intorno alla metà del
Duecento, San Francesco veniva indicato come il nuovo profeta inviato da Dio e
gli Spirituali erano identificati con quel nuovo ordine religioso che era stato
annunciato nelle profezie di Gioacchino come autore della definitiva riforma
della Chiesa.
Al clima di misticismo millenaristico e di ansia di riforma
instaurato dal gioachimismo vanno riportati, almeno in parte, fenomeni come
quello dei Flagellanti (sorti a Perugia nel 1260-61) o personaggi quali Arnaldo
di Villanova (il medico di fiducia di Bonifacio VIII), Pier di Giovanni Olivi
(eccentrico capo degli Spirituali, morto nel 1298), Ubertino da Casale
(1259-1329, un altro esponente degli Spirituali, che Giovanni XXII nel 1317
trasferì d'autorità dall'ordine francescano al benedettino) e lo
stesso Iacopone da Todi (che conobbe la scomunica e la prigione).
Alla
stessa matrice va ricondotta la setta degli Apostolici (o «Fratelli
apostoli»): nata dalla predicazione del parmense Gerardo Segarelli, un
francescano espulso dall'ordine nel 1260, condannato dall'Inquisizione al
carcere a vita nel 1294 e mandato al rogo nel 1300, proseguì attraverso
l'opera del successore, Fra Dolcino, implacabile accusatore della corruzione
ecclesiastica, agitatore di folle, finito anch'egli arso nel 1307. (Chi desideri
saperne di più sui movimenti ereticali di quel tempo, può leggersi
la gustosa rievocazione che ne fa Umberto Eco nel romanzo Il nome della
rosa).
POPOLO, PALAZZO, DEMOCRAZIA
In senso generalissimo si intende per
«popolo» una collettività di persone che hanno in comune una
fede politica o religiosa (in espressioni come: il popolo di sinistra, il popolo
cristiano, ecc.), una condizione sociale o professionale (il popolo degli
artigiani) e così via. Anche più genericamente il termine è
usato come sinonimo di moltitudine o di folla (un grande concorso di popolo, ma
anche una città popolosa) o di «gente», specialmente la
«gente comune», «la maggioranza della gente» (vox populi,
vox Dei), il «pubblico»: in questo senso si parla di
«popolarità» (un attore popolare, è quello che ha il
favore del pubblico della maggioranza della gente). Quelli che qui ci
interessano sono però alcuni valori specifici del termine
«popolo», riconducibili a due significati principali, l'uno politico,
l'altro sociale.
In senso politico «popolo» indica il complesso
dei cittadini di uno Stato, ossia l'insieme degli uomini che vivono sotto lo
stesso governo e che obbediscono alle stesse leggi, senza distinzioni di classe
o di cultura (ad esempio: il popolo italiano). La parola acquista però un
accento particolare quando sta a indicare (magari usata al plurale: popoli)
l'insieme dei governati in contrapposizione all'insieme di coloro che governano
(o che «sgovernano») come nel sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli
(1791-1863) Li soprani der monno antico («soprano» sono i sovrani,
alla romana). Qui, ridotta all'essenziale, Belli dà una folgorante
definizione di quella che potremmo chiamare «la logica del Palazzo»
(un termine, quest'ultimo, che viene dal latino Palatium = «il colle
Palatino» a Roma, dove sorgevano le residenze degli imperatori e che,
scritto con la P maiuscola, è correntemente usato per indicare
l'arrogante combriccola dei governanti, in opposizione, appunto, alla gente
comune, al popolo):
C'era una vorta un Re che dar
palazzo
mannò fora a li popoli st'editto:
lo sò io, e
voi nun zete un cazzo...
Si parla di governo «popolare» per
indicare una forma di governo che invece di opporsi o di sovrapporsi
arrogantemente al popolo (all'insieme dei cittadini), ne è libera
espressione: «governo popolare» è allora sinonimo di democrazia
(dal greco démos = «popolo» e kràtos =
«potere»).
L'espressione «governo popolare» ha
però un significato sensibilmente diverso quando il popolo di cui si
tratta non viene inteso come l'insieme di tutti i cittadini, ma come un
particolare gruppo sociale, e cioè come l'insieme delle classi
«basse» e più numerose (i popolani i poveri, i lavoratori,
ecc.) in contrapposizione alle classi «alte» (i nobili, i ricchi, i
potenti, i colti). In questo caso «democrazia» e governo
«popolare» sono l'antitesi di governo «oligarchico» (dal
greco olìgoi = «pochi» e -archìa = «governo»:
«governo di pochi»), «aristocratico» (dal greco
àristos = «ottimo»: «governo degli ottimati»),
«plutocratico» (dal greco plùtos = «ricchezza»:
«governo dei ricchi»), ecc.
Il termine «popolo» inteso
come gruppo sociale (l'insieme delle classi inferiori, in opposizione alle
classi elevate) può indicare cose molto diverse a seconda delle epoche. I
criteri che definiscono l'inferiorità o la superiorità sociale
cambiano infatti con il tempo. La ricca borghesia, ad esempio, che oggi si
contrappone al popolo come classe «elevata» ancora due secoli fa era
considerata una classe «bassa» e assimilata al popolo giacché
l'aristocrazia occupava da sola i più alti gradini della scala sociale:
come criterio di discriminazione sociale la nobiltà della nascita
prevaleva allora su ogni altro valore, e per esempio sulla ricchezza e sulla
cultura (mentre oggi è piuttosto vero il contrario).
Nel suo
significato sociale il termine «popolo» è ambiguo anche per
un'altra ragione: in ogni epoca il cosiddetto «popolo» ha presentato
al proprio interno diversità e stratificazioni, che impediscono di
considerarlo una realtà sociale omogenea. Più che un gruppo
sociale, «popolo» designa insomma un insieme di gruppi e di ceti, i
cui interessi economici, la cui cultura, le cui aspirazioni politiche possono
essere non solo diversi, ma contrastanti. Sono nate così una serie di
distinzioni all'interno del «popolo» e di volta in volta si è
contrapposto il popolo «grasso» (ricco) al popolo «minuto»
(povero), il popolo colto al «popolino» ignorante, il popolo delle
città a quello delle campagne, il proletariato al sottoproletariato, e
così via.
Talvolta si è cercato di restringere la portata del
termine «popolo» ai soli ceti più elevati del popolo stesso,
quelli, cioè, caratterizzati da un certo benessere e da una certa
cultura, riservando agli strati più umili termini come
«popolino», «popolaccio», «plebaglia»,
«canaglia» e via vituperando, che sottolineano i caratteri moralmente
e culturalmente negativi (ignoranza, rozzezza, brutalità, ecc.) di solito
attribuiti ai poveri, ai diseredati, ai «marginali» (che vivono ai
margini della società) e agli «emarginati» (che sono esclusi
dalla società).
Un'ultima fonte di equivoci è l'uso
arbitrario o ambiguo che in ogni tempo è stato fatto nel linguaggio
politico del termine «popolo». In molte città del Basso Medio
Evo e della prima Età Moderna, per esempio, il governo era conteso tra
due fazioni, quella dei «Nobili» e quella dei «Popolari» e
si diceva «popolare» il governo tenuto dalla fazione che così
si denominava, anche se il popolo vero quello minuto dei bottegai, degli
artigiani e dei lavoranti, ne era totalmente escluso. In realtà, la
fazione detta «popolare» era costituita da famiglie della borghesia
mercantile, ricche, potenti e di antica tradizione, non dissimili in sostanza
dalle famiglie dette «nobili». Molto spesso questi
«Popolari» finirono col fondersi del tutto con i «Nobili»,
proprio sulla base del comune interesse a impedire l'organizzazione politica e
l'accesso al potere delle classi più umili.
Che cosa esattamente si
debba intendere nel Medio Evo per «popolo» e per
«democrazia» non risulta chiaro neppure nell'opera del primo teorico
europeo della sovranità popolare, Marsilio da Padova. In qualsiasi
autorità sovrana, diceva Marsilio, si possono distinguere tre poteri:
quello legislativo (che fa le leggi, ossia stabilisce le norme della convivenza
civile), quello giudiziario (che giudica circa la conformità o meno dei
comportamenti individuali alle leggi in vigore) e quello esecutivo (che mette in
atto quanto ordinato dalle leggi o dalle sentenze dei giudici). Il potere
legislativo, sosteneva, appartiene al popolo mentre i poteri esecutivo e
giudiziario sono delegati dal popolo stesso al principe; il principe, dunque,
è un organo della volontà popolare, che resta sempre sottoposto al
controllo della comunità e deve rispondere al popolo del modo in cui ha
gestito i poteri a lui delegati.
La sovranità, insomma, appartiene
al popolo: o meglio, aggiungeva Marsilio, «alla sua parte migliore». E
qui le cose si complicavano. Che cosa intendeva Marsilio per «parte
migliore» (valentior) del popolo? «la maggioranza» del popolo
(valentior pro quantitate), oppure la parte socialmente e intellettualmente
più qualificata e più influente (valentior pro qualitate)? Si
è discusso a lungo intorno a questa alternativa, ma l'ambiguità
resta ed è sufficiente a indicare quanto sia problematico parlare per il
Medio Evo di «democrazia», almeno nel significato che oggi diamo a
questa parola.